Il volume di Pastore
La nostra gioventù dell’Alta Italia mi pare da qualche anno più robusta, più ardita, più virile; all’ozio della città, nella state, sostituisce ormai l’aria pura dei monti, le ascensioni difficili, ove ci s’impara a indurare nelle fatiche ed a sentirci solidali.
Con queste parole Quintino Sella nel 1880 metteva in luce la sua visione della pratica alpinistica, con un amore di analisi che non può non far sorridere chiunque ancora oggi legga le sue frasi e abbia un amore immenso per la montagna. Il volume di Alessandro Pastore è infatti un atto d’amore, che richiude in sé due grandi passioni, la Storia e la Montagna. Con un linguaggio e uno stile ibrido infatti, Pastore riesce a parlare ad un pubblico vario; da un lato quello accademico o di addetti ai lavori, dall’altro a tutti gli appassionati di montagna, riuscendo però così a captare l’interesse del pubblico mediano tra queste due categorie apparentemente agli antipodi, gli storici e gli alpinisti. Supportato da un apparato critico importante si ripercorre la storia dell’Italia da un’inquadratura apparentemente periferica, ossia la montagna, riuscendo ad evidenziare meccanismi ed aspetti ancora poco studiati ma che visti dall’alto delle vette alpine ed appenniniche, ci spiegano e ci danno conferma riguardo processi importanti della storia nazionale italiana, come l’affermarsi del nazionalismo, dell’interventismo e in un secondo tempo del fascismo.
Partendo dalla figura di Quintino Sella oltre che ministro del governo Rattazzi, fondatore del Club Alpino Italiano ed ottimo alpinista (fu tra i primi alpinisti italiani a raggiungere la vetta del Monviso a 3841 m s.l.m.), viene affrontato lo sviluppo dei primi circoli e delle prime associazioni alpinistiche che si faranno promotrici di una politica alpina basata sullo stretto legame tra impresa sportiva e crescita del paese; politica che avrà notevole successo nei circoli borghesi e nobiliari per diffondersi poi anche a classi più basse e al proletariato, con la nascita di gruppi escursionistici operai che diedero un contributo significativo alla lotta contro l’alcolismo, imperante all’interno delle fabbriche dell’alta Italia. L’autore mette in luce come lo sviluppo dell’alpinismo coincida con l’affermarsi a livello europeo del nazionalismo, con l’accentuarsi negli anni che vanno dalla fine dell’Ottocento all’inizio del primo conflitto mondiale, di una vera e propria «guerra bianca», “combattuta” dagli alpinisti dell’arco alpino a suon di ascensioni e di aperture di nuove vie, sopratutto in quei territori in cui si presentavano rivendicazioni nazionali contrastanti, come ad esempio le terre irridente. Non solo una sana sfida sportiva ma anche uno scontro patriottico, in quella che è stata definita la rincorsa alle vette, in cui poi, dovevano padroneggiare i vessilli nazionali.
Con l’esplodere del primo conflitto mondiale, le Alpi diventarono territorio bellico e conseguentemente l’attività alpinistica guadagnò importanza, diventando un fenomeno di massa grazie all’incontro tra i soldati e la montagna. Il caso italiano è emblematico, a causa dell’importanza del controllo dei passi alpini nella guerra contro gli austro-ungarici, con lo sviluppo di nuove tecniche atte ad aiutare il movimento delle truppe nei passaggi più esposti, come la creazione delle famose vie ferrate. Con il primo dopoguerra emerge con più forza lo stretto legame tra associazionismo alpinistico e politica, con la crescente preoccupazione del diffondersi di idee antinazionali e socialiste all’interno di alcuni gruppi alpinistici, preoccupazioni che scomparvero velocemente con l’affermarsi del fascismo e con la relativa fascistizzazione del CAI ad opera di Angelo Manaresi, esponente del primo squadrismo bolognese e futuro podestà della città. Anche con il secondo conflitto mondiale andrà crescendo l’interesse per la montagna, sia da parte del governo fascista sia da parte del CAI, che si adoperarono in un’intensa campagna propagandistica, riempiendo ogni vetta e ogni rifugio d’Italia di simboli di regime, e dall’altro lato, anche da parte degli oppositori antifascisti che troveranno nelle montagne e in alcuni celebri alpinisti, degli importanti alleati per poter scappare clandestinamente dal paese. É il caso di Giovanni Battista Piaz (“il diavolo rosso”), che tra gli anni venti e trenta realizzerà ascensioni importanti di 5 e 6 grado nel gruppo del Sella, il quale si distinse per la sua intensa opera in aiuto agli antifascisti che cercavano riparo in Svizzera, assieme al figlio del tridentino Cesare Battisti, Luigino; oppure l’alpinista e antifascista Ettore Castiglioni che, dal 25 luglio 1943, svolgerà un’intensa opera di rimozione dei simboli di regime dai passi e dai rifugi alpini, oltre che aiutare, come Piaz, ad accompagnare oltre frontiera i perseguitati politici, tra questi anche Luigi e Ida Einaudi.
Con la nascita della resistenza armata al nazifascismo, dopo l’8 settembre, viene a coincidere “l’andar per i monti” con il diventare militanti antifascisti. Già dal luglio 1943 il CAI inizierà il cambio di rotta appoggiando il governo badogliano e rifiutando ogni influenza repubblichina, ma ancor più importante sarà il contributo dei gestori dei rifugi alpini e di parte della popolazione alpina verso le nascenti “bande” partigiane, oltre al diretto contributo di esponenti di spicco dell’alpinismo italiano e del CAI alla lotta partigiana.
Pastore ci presenta la Montagna, e in special modo l’arco alpino, come uno dei luoghi d’analisi più importanti per capire la storia del Novecento italiano. Luoghi apparentemente periferici ed altri rispetto al centralismo della città, in cui però emergono processi affini e in molti casi strumentali alla creazione di mentalità e di storie nuove. Le montagne diventano nel volume di Pastore testimoni silenziosi, che guardano dall’alto un frenetico Novecento, con la consapevolezza di rimanere, ancora per molto tempo, protagoniste secondarie, ma non per questo meno importanti della nostra storia.