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Alexandre Dumas e la fabbrica del romanzo

Creato il 11 marzo 2014 da Lundici @lundici_it

Di Fulvio Lo CiceroAlexandre Dumas in una celebre foto di Nadar scattata nel 1855

Quando Eugéne de Mirecourt scoprì (e denunciò) la Hollywood francese

A partire dal secolo XIX, il capitalismo si appropriò del racconto e costruì subito le sue officine in cui centinaia di talenti narrativi costruivano fantasmi per un pubblico smisurato. Nel cinema ciò avvenne subito dopo gli anni Venti, grazie al successo dei film di David Wark Griffith (“Nascita di una nazione”, 1915). Hollywood divenne rapidamente un grande opificio di storie. Centinaia di scrittori venivano messi sotto contratto da produttori pieni di soldi, che spesso chiedevano loro di inventare un racconto o di adattare un romanzo in pochissimo tempo. Era una vera e propria catena di montaggio.

Uno degli sceneggiatori più leggendari fu, senza dubbio, Ben Hecth, il quale scrisse «Scarface» in sette giorni («Scarface», 1932, con Paul Muni, regia di Howard Hawks e Richard Rosson). Quando gli presentarono lo screenplay di uno dei film che incassò più soldi nella storia del cinema, «Via col vento», disse che era da buttare e che ci avrebbe pensato lui. Poco dopo presentò un copione rifatto e il produttore, David Selznick gli firmò seduta stante un assegno da quindicimila dollari (del 1938).

Ma non tutti i talenti letterari che lavorarono ad Hollywood furono così bravi. Ad esempio, il drammaturgo tedesco Bertold Brecht, approdato in America durante il nazismo e lo scrittore americano della «hard boiled school» Raymond Chandler durarono pochissimo nell’impiego contrattuale, dimostrando plasticamente come non sempre sia possibile fare dell’arte espressiva una catena di montaggio, come vorrebbe l’industria capitalistica.

Romanzi come «prodotti»

Eugenio Torelli Viollier, un altro collaboratore di Dumas. Fonderà il Corriere della sera

Eugenio Torelli Viollier, un altro collaboratore di Dumas. Fonderà il Corriere della sera

Esattamente un secolo prima, Alexandre Dumas (padre) era stato il precursore degli opifici hollywoodiani. L’autore de «Il conte di Montecristo» pubblicò in vita duecentocinquantasette opere, decine di drammi teatrali, una quantità inusitata di storie che nessun altro scrittore è stato mai in grado di produrre. Il suo contemporaneo Alessandro Manzoni scrisse solamente un romanzo, intorno al quale rimase impigliato per trent’anni, fra rifacimenti e «risciacquature in Arno». Nel periodo in cui Gustave Flaubert aveva scritto e pubblicato il solo «Madame Bovary», Dumas aveva portato a compimento trenta romanzi, tanto da essere ben presto identificato da Sainte-Beuve come il principale esponente di quella littérature industrielle che certo non poteva piacere al severo critico letterario francese.

Dumas aveva iniziato giovanissimo a girare la Francia e, in particolare, Parigi con il suo amico, lo sfortunato poeta visionario Gerard De Nerval (che si suicidò impiccandosi ad una cancellata), avendo un’idea «alta» di letteratura. Ma comprese ben presto che i tempi erano maturi per una diffusione da grandi tirature di ciò che aveva in testa: la riproposizione del «mito» nei suoi termini originari, cioè il “racconto”. Solo che ora, a differenza di quanto accadeva ai tempi di Omero, c’erano i mezzi di una distibuzione di massa. Si trattava “soltanto” di mettere assieme un contesto storico azzeccato, una storia avvincente con i personaggi giusti, uno stile «popolare» (cioè scorrevole, che non annoiasse il lettore), una tecnica narrativa di prim’ordine, piena di colpi di scena, di «suspense», di attesa.

Il fenomeno non appartiene solo alla Francia del XIX secolo. Nello stesso periodo, un altro scrittore, ma d’oltre Manica, Charles Dickens, sta creando meccanismi di diffusione dei suoi romanzi assai simili, anche se artisticamente ben superiori. L’autore di «Il circolo Pickwick» e di altri capolavori assoluti della narrativa ottocentesca, sta raccontando il dramma moderno del capitalismo della seconda rivoluzione industriale e il suo impatto sui giovani operai e le giovani operaie del suo Paese, in una Londra brumosa e iperclassista.

August Maquet, il principale collaboratore per la stesura dei romanzi di Dumas

August Maquet, il principale collaboratore per la stesura dei romanzi di Dumas

La scommessa di Dumas è quella «di saper parlare allo stomaco dei lettori senza subirne fino in fondo il ricatto delle attese e dei rilanci, di saperli sballottare dentro la carrozza dell’intrattenimento ma tenendo saldamente in mano le redini dei cavalli dell’invenzione creativa» (http://www.lafrusta.net/pro_dumas.html).

Ma come poteva scrivere quella mole di romanzi e racconti tutto da solo? È la domanda che i suoi contemporanei si posero e alla quale si diedero anche una risposta. Per la verità, non sempre benevola.

L’opificio di Dumas

La gran massa dei lettori odierni conosce soltanto alcuni dei romanzi di Dumas. «I tre moschettieri» e «Il conte di Montecristo» sono le opere più famose ma l’autore francese pubblicò titoli fra i più disparati, che ebbero, al tempo, un enorme successo: si pensi a «Le Chevalier d’Harmental» (1842), a «Il Visconte di Bragelonne» (1848-50), a «Madame de Monsoreau» (1846), e così via.

Dietro di lui agiva una vera e propria catena di montaggio, che ben presto sollevò lo stupore ed anche la denuncia dei contemporanei. I suoi «collaboratori» furono chiamati «nègres»: erano ricercatori ed anche buoni scrittori che lavoravano per lui, definendo contesti storici, ambientazioni, personaggi realmente vissuti. Fra questi spiccavano i nomi di Paul Lacroix, Emile Souvestre, Anicet Bourgeois, Pier Angelo Fiorentino, Paul Meurice, H. Auget, August Maquet (il più determinante di tutti, per l’apporto prestato all’opera di Dumas). Fra i collaboratori di Dumas figurava anche l’italiano Eugenio Torelli Viollier, che fonderà il «Correre della sera». L’ipotesi più positiva (la più diffusa, per la verità) racconta di un Dumas che partiva da quel materiale informe che gli forniva la sua officina e, come un pittore trecentesco o quattrocentesco, creava l’affresco, lasciando qualche volta le finiture ad uno di loro, quando le commesse superavano la sua capacità di elaborazione.

Le opinioni al riguardo del giornalista Eugéne de Mirercourt (1812-1880) non rientravano fra le ipotesi di parte benevola. Egli pubblicò nel 1845 «Fabrique de Romans : Maison Alexandre Dumas et compagnie», un pesantissimo pamphlet in cui accusava lo scrittore francese di una numerosa serie di nefandezze, fra le quali lo sfruttamento quasi schiavistico dei suoi «negri» e l’affermazione dovuta non tanto alla sua bravura, quanto alle sue conoscenze politiche. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire; tali genere di accuse hanno da sempre investito i “grandi”. Secondo de Mirercourt, Dumas non era il vero autore dei suoi romanzi ma, esattamente come un imprenditore moderno, si appropriava dei beni prodotti dai suoi collaboratori e li rivendeva a suo nome (Marx avrebbe parlato di pluslavoro confiscato dal capitalista).

De Mirecourt usa toni molto forti nel descrivere i «negri» sfruttati dal “terribile” Dumas, accusandolo di avere accolto persone che morivano di fame e di freddo, in cambio della loro anima (Mais en échange du pain que je te donne et des habits dont je te couvre, à moi ton esprits, à moi ton intelligence. Je soigne ton corps, livre-moi ton ame. Et votre boutique s’organise. Tous les ouvrieres sont à la besogne. Le drammes s’ourdissent, les intrigues se filent, le romans se charpentent).

De Mirecourt, insomma, andava giù duro, partendo da un dato di fatto reale. Dumas era figlio di un generale dell’esercito francese e di una giovane africana: era dunque «negro» lui stesso, un «negro» che sfruttava altri «negri» (ma questa era la sua considerazione personale).

Accuse del genere naturalmente non potevano che essere respinte dallo scrittore francese, che denunciò l’autore del pamphlet, poi condannato a sei mesi di reclusione per diffamazione.

Eugéne de Mirecourt

Eugéne de Mirecourt

De Mirecourt aveva ragione?

A distanza di quasi due secoli, possiamo forse dire che la denuncia di de Mirecourt era vera? Impossibile oggi fornire una risposta certa, proprio perché, con Dumas, inizia quel fenomeno del tutto moderno dell’arte condivisa, che poi il cinema hollywoodiano porterà al successo planetario. Gli estimatori posteriori di Dumas (soprattutto francesi ma anche italiani, si pensi ad Umberto Eco e alla sua rivalutazione del genere fuilletton) credevano in uno scrittore non più soltanto quale solitario e fantasmatico creatore, ma come abile facitore e rielaboratore del magma collettivo. Dumas avrebbe perfezionato i meccanismi ben conosciuti, anche se in ambiti più ristretti, da Giotto, da Piero della Francesca, da Michelangelo Buonarroti: l’espressione artistica come risultato di un laboratorio di pensiero, insomma un prodotto sociale prima ancora che espressivo.

E poi Dumas fa buona compagnia ad altri grandi artisti, scambiati come lui per modesti impostori. Da secoli William Shakespeare è accusato, da una sparuta truppa di disperati cercatori di scoop, di non essere il vero autore dei suoi capolavori ma di aver sfruttato bravissimi quanto sconosciuti drammaturghi messi a bottega, fra i quali non manca un italiano. Il Bardo se la ride dall’altro mondo, mentre gli uomini, con il suo teschio in mano, si chiedono ancora se esistono veramente.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

E. DE MIRECOURT, Maison Alexandre Dumas et compagnie, Hauquelin et Bautruche, Parigi, 1845 (riprodotto sul web in https://archive.org/stream/fabriquederoman00miregoog#page/n11/mode/2up)

C. ANTONA TRAVERSI, Maison A. Dumas et C., in «Nuova antologia», 16 settembre 1918

J.S. ALIEN, Il romanticismo popolare. Autori, lettori e libri in Francia nel XIX secolo, Il Mulino, Bologna, 1990

F. PERFETTI, Prefazione a A. DUMAS, “I tre moschettieri e Vent’anni dopo”, Newton Compton, Roma, 2012


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