Mario Turco
Un giorno dovrò renderLe un più alto tributo: è alla Sua continua ricerca di mestizia letteraria che devo tanta felicità di lettore. Io ho sempre cercato scrittori-dinamite, autori-aratro che inconsapevolmente mi avevano però fatto veleggiare in una tranquilla bonaccia fatta di strida, pugni agitati, assassinii mistici. Lei invece con l’acume di una solitudine forzata e non forzosa, come la mia, propendeva per i m’accuse vergati con nobile stile, per certi auto-ritratti della virulenza, attratta com’è sempre stata dalla bellezza della bruttezza. E per due anni sono riuscito a rubarLe i libri dal comodino e a riporglieli di nascosto dopo averli letti, che rappresenta il massimo dell’intimità di una relazione per me. Famelico, ho divorato tutto di Lei, anche la cultura e oggi tento di raccogliere un po’ di miele da quella poltiglia biliosa che è ciò che resta della nostra relazione. La confessione di un figlio del secolo (letta nell’elegante edizione della Fabbri editore con la traduzione di Maria Gallone) di Alfred de Musset è l’ultima delle tante estasi che Le attribuisco. Musset è uno dei classici del romanticismo francese che tuttavia nelle scuole italiane si studia poco, vuoi per la sua lontananza dai coevi colleghi, immersi con più pragmatismo nella nascente letteratura sociale, vuoi per la sua “ghettizzazione” nella irripetibile cultura del tempo. Figlio dell’aristocrazia accademica e della borghesia del denaro crebbe in un clima adatto alla coltivazione di un talento apparso scintillante sin da giovane, tanto da entrare appena diciassettenne nel salotto della casa al n. 11 di rue Notre-Dame-des-Champs appartenente a Victor Hugo, ritrovo di almeno due generazioni di scrittori quali Vigny, Dumas, Sainte-Beuve, Gautier, Lamartine, Balzac, Mérimée, Nerval, i fratelli Deschamps che avrebbero apportato, pur tra inevitabili differenze, un rinnovamento estetico epocale. Delle molteplici correnti del romanticismo francese De Musset incarnò quella del lirismo sentimentale, cimentandosi, nelle poesie e nei romanzi, nell’esaltazione dell’amore con annessi e connessi. Agli onori della cronaca assurse, ed è tuttora radicata nell’immaginario moderno (si veda il film del 1999 che ne narra la storia, I figli del secolo, diretto da Diane Kurys, con Juliette Binoche), la sua tormentata relazione con la scrittrice proto-femminista George Sand, relazione punteggiata di reciproci tradimenti e da un carteggio di notevole spessore, che ha meritato la pubblicazione.
L’autore francese scrisse La confessione di un figlio del secolo quando la ferita per il tradimento della sua amata a Venezia con il dottor Pagello pulsava ancora di dolore. È bene chiarire subito, però, che di George Sand, nel libro, non vi è traccia. Il lettore curioso di scorgere qualche riferimento alla donna indipendente che si travestiva da uomo e che fece impazzire i cuori di molti altri artisti, tra i quali si annovera pure Chopin, rivolga piuttosto la sua attenzione al poema Le notti e al corpus delle Comédies et proverbes, singolari opere teatrali scritte per essere lette e non per essere recitate. La protagonista del romanzo di De Musset, Brigitte Pierson, è infatti una castigata e celeste creatura, ai confini della donna angelica stilnovistica, che ha occhi, cuore e mente solo per il giovane Octave. È lui il figlio del secolo di cui l’autore francese vuole narrare la confessione, sospesa, negli intenti, tra una chiara denuncia politica della mollezza della generazione post-napoleonica e la confusione e gli eccessi a cui si abbandona. La prima parte è svolta con splendida originalità metaforica nel celebre secondo capitolo, fulcro di tutte le antologie romantiche e delle pallide restaurazioni che seguono ad ogni rivoluzione. Octave vive la Restaurazione per antonomasia, quella che gli Stati europei proclamarono dopo la sconfitta del despota-rivoluzionario Napoleone. Egli non analizza le contraddizioni politiche di quel sogno di libertà che ben presto si rivelò un incubo liberticida, ma ne mette in risalto gli effetti che ebbe su quei giovani cresciuti nei collegi, tra gli squilli di gloria, e che quando ne uscirono si trovarono classi di relitti sociali che difendevano un impossibile status quo. L’eterna questione francese: Che fare?, divenne allora un angoscioso problema personalistico. “L’astro glaciale” della ragione aveva spento gli ultimi focolari religiosi, metafisici, idealistici non trovando loro degni sostituti e lasciando solo il vuoto dietro di sé. Il giovane Octave rimpiange perfino certe forme di assolutismo, perché un popolo che del trono e dell’altare pensa che «sono quattro assi di legno; noi le abbiamo inchiodate» ha perso ogni motivo di lotta. La malattia del secolo diciannovesimo è questa assenza o, meglio, è l’indeterminatezza di questo presente.
Sospeso tra un passato carico di fanfare militari e promesse ultraterrene, e un futuro compiutamente razionale, De Musset presagisce lo smarrimento dell’Ottocento. La confessione si fa allora individuale, dato che più nulla di sicuro resta all’uomo. Octave è un ventenne che oltre alle disillusioni del suo tempo vive la più amara di tutte: il tradimento da parte della sua amante. Reagisce con l’irruenza della sua età: esaspera le lacrime, crede indelebili i suoi tormenti, sfida a duello il proprio rivale. Non ottiene pace, e si getta a capofitto nel libertinaggio, praticandolo più per senso di espiazione che per convinzione. Il libro vaga magnificamente tra le ossessioni del ragazzo e questa prima parte, pur odorante di propedeuticità, si segnala per l’acutezza di pensiero dell’autore che riesce a dare, con accattivante stile, grazia a temi stra-indagati quali la gelosia e l’amore. L’incontro con la caritatevole Brigitte cambia l’esistenza di Octave, ma anche la struttura dell’opera, la quale perde i fascinosi tratti della confessione, per diventare la narrazione di una lacerante storia d’amore. Svaniscono i già pochi personaggi secondari e il continuo uso della prima persona passa ad essere invalidante, dal punto di vista dell’empatia. Si avverte allora una certa stanchezza nella schizofrenica coazione a ripetere del protagonista, che fa dimenticare la matrice della malattia del secolo e la fa divenire volubile capriccio di un signorotto viziato. Più che dolori del giovane protagonista, i frequenti allontanamenti e ri-avvicinamenti sembrano ghiribizzi di un adolescente insicuro. Restano alcuni notevoli momenti; come, ad esempio, il vorticoso finale che, seppur nella immobilità d’azione (Octave passa un’intera notte tormentato da atroci dilemmi, accanto alla sfinita Brigitte, arrivando a meditare persino di ucciderla), rende con efficacia il delirio del giovane. Inoltre risulta datata proprio la figura femminile della vedova Pierson, che sopporta le angherie del suo fidanzato con una rassegnazione da sesso debole, fortunatamente in via di scomparsa. È anche a causa di questo logoro costume, che la confessione è peculiare di un figlio del secolo diciannovesimo.