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ALFREDO
Era una magnifica giornata, tiepida e trasparente. Le montagne formavano un semicerchio di vette innevate e sembravano così vicine da poterle toccare allungando un braccio. Le otto del mattino.
Pareva impossibile che avesse potuto rovinarsi in quel modo la sera prima, quando aveva proposto a tutti di trovarsi al campo di calcio.
“Per una sorpresa,” aveva spiegato.
Una sorpresa che aveva la forma di un enorme cuore rosso.
Ma la sera prima, intorno al mio caminetto, a quell’annuncio ci eravamo scambiati occhiate divertite. Conoscevamo fin troppo bene l’esibizionismo di Alfredo, che lo spingeva a compiere autentiche follie solo per il gusto di far ridere la compagnia o attirare l’attenzione del paese. Il suo era un ego smisurato, una montagna che edificava a colpi di teatro e inconcepibili scommesse di abilità, come venire giù dal fianco innevato del monte Musiné scivolando su una teglia da forno, o irrompere sul palco del cantante alla festa patronale, sfidandolo davanti alla piazza a cantare il Nessun Dorma.
L’azione in assoluto più eclatante era stata riempire il bosco di statuette in cartapesta fabbricate da un suo amico scultore, nasconderle nel fogliame e poi far circolare la voce che il bosco era infestato di marziani. Non potrò mai dimenticare le urla di un vigile urbano accorso a controllare con una torcia elettrica.
Ma da qualche tempo quella vena si era esaurita. Alfredo era diventato abulico. Facevamo fatica persino a coinvolgerlo nelle tranquille serate fra amici, al nostro micragnoso tavolo da poker con mogli al seguito. Inventava delle scuse e se ne stava per conto suo, a farsi crescere barba e baffi.
A due di noi che gli avevano chiesto se qualcosa non andava, lui aveva risposto con un sorriso a trentadue denti negando l’evidenza. “E perché mai? Sto benissimo come sempre.” Ma sembrava che il torpore del paesino si fosse impossessato di lui; come se avesse capito che se vivi in un contesto mediocre non ha senso avere del talento. Nulla di ciò che inventava avrebbe lasciato tracce di lui più di chiunque altro: la gente si sarebbe data di gomito al suo passaggio, e nient’altro.
Doveva essere questa la causa del suo cambiamento, un improvviso senso di futilità. Perciò non gli chiedevo nulla, e da questo punto di vista mi colpiva l’indelicatezza degli amici che invece continuavano a punzecchiarlo.
Ma ecco che annunciava un’impresa tutta nuova.
“Perché non si dica che sono il tipo che da per scontato il quotidiano,” disse misteriosamente.
Ci trovammo dunque al campo di calcio, sotto il sole di aprile che brillava. E quando varcammo l’ingresso, sullo sfondo delle montagne che svettavano all’orizzonte ci apparve lo spettacolo più straordinario che avessimo mai visto. In fondo al campo, assicurato con una fune ai pali della porta, si innalzava un gigantesco grappolo di palloncini rossi. Erano migliaia. Formavano un enorme cuore che dondolava lievemente contro il cielo azzurro.
Alfredo trafficava lì accanto con quel suo amico scultore. Quando ci vide alzò il braccio e sorrise appena, me ne accorsi dal baffo che si distendeva.
“Grazie di essere venuti,” gridò.
“Ma che diavolo stai combinando?” gli chiese uno di noi.
Ci dirigemmo verso i palloncini, lui fece segno di fermarci a una certa distanza. L’amico gli fissò un’imbracatura alla vita e alle spalle aiutandolo a salire su una sedia. I preparativi andarono avanti diversi minuti mentre noi assistevamo affascinati, osando qualche domanda sullo scopo di quell’esibizione.
“Pazienza,” rispondeva. “Fra poco lo vedrete.”
Infine lo scultore staccò un gancio. Il grappolone ebbe un sobbalzo, stormendo come un gigantesco uccello, quindi si librò di un paio di metri. La gola mi si seccò di colpo nel vedere Alfredo che si staccava dal suolo. Fece un saluto mentre i piedi superavano la traversa.
Ci scuotemmo dallo sconcerto e accorremmo davanti alla porta, ma quel pazzo era già a una decina di metri sopra le nostre teste. Il gigantesco cuore lo stava trasportando in direzione delle montagne. Lo seguimmo con lo sguardo fin quando si eclissò dietro le gradinate, quindi uscimmo a precipizio dal campo sportivo. Arrivati nel parcheggio lo scorgemmo di nuovo. Si era allontanato di molto, diventando un pupazzetto appeso a un’irregolare macchia rossa; e secondo me, ma non potrei giurarlo, anche a quella distanza Alfredo continuava a fare ‘ciao ciao’ con la manina mentre l’inaudita astronave si rimpiccioliva tra le cime dei monti.
E in quel preciso istante qualcosa dentro di me capì che non l’avrei rivisto mai più.
Quando tornai a casa, sconvolto e incapace di credere io stesso a quanto era accaduto in quel campo sportivo, nella cassetta delle lettere trovai un pacchetto.
Il biglietto diceva: ‘Grazie amico mio. La vita vale più di tutto. Niente e nessuno deve mai tirarti giù.’
Leggendo il titolo del libro che mi aveva regalato capii il perché di barba e baffi.
Era ‘L’uomo dal fiore in bocca’, di Luigi Pirandello.
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