Alieni a Firenze
di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
racconto tratto da Morte all’alba
Beatrice e Dante
Tornai ch’era già inverno: le strade di Firenze erano grigie come i volti dei passanti avvolti in cappotti di silenziosa tristezza.
* * *
Centellinavo un caffè che non mi piaceva: amaro. Ho sempre amato il caffè amaro, ma quello che m’avevano servito era veleno. Accesi una N80, ma dopo due boccate ero già disgustato. Il cameriere apparve alle mie spalle senza che io me ne accorgessi: era un tipo segaligno, pallido, un volto spettrale, quello d’un’anima morta à la Gogol’.
In strada faceva freddo: provai un paio di volte a chiedere delle indicazioni, ma nessuno mi prestò attenzione. L’albergo l’avevo prenotato da un po’ di tempo. Doveva essere un quattro stelle vicino al mercato di San Lorenzo. Decisi ch’era il caso che andassi ad occupare la mia camera. Nella hall non c’era nessuno. Prima che potessi rendermene conto, ero già disteso sul letto: la vista annebbiata, prossimo a sprofondare in un deliquio. Pregai perché non sognassi.
* * *
Morte all'alba di Iannozzi Giuseppe
“La Venere di Botticelli, ricordi come nacque?”
“No.”
“Nasce dal mare, portata da una grande conchiglia che viene sospinta a riva dal soffio intrecciato di Zefiro e Clori, mentre Ora, personificazione della primavera, si avvicina per avvolgerla in un mantello fiorito.”
“Ed allora?”
“La nudità di Venere non è solo esaltazione della bellezza, ma anche affermazione della bellezza pura, della semplicità dell’Anima. Possibile che tu non abbia più memoria?”
“Non ricordo nulla.”
“Ma è terribile.”
“No. E’ naturale. Perché mai dovrei ricordare?”
“Ma è Anima?”
”Chi è… Anima?”
“Venere.”
“Venere! Non credo d’averla mai conosciuta.”
“Invece l’hai conosciuta.”
”Forse in sogno. Ma non ricordo.”
“Questo è un sogno!”
“Sia quel che sia, non fa differenza.”
“Tu eri un poeta. Un tempo non lontano eri un poeta dell’anima.”
“Mai scritte poesia in vita mia.”
“Tu non ricordi nulla. Non è possibile.”
“E’ reale.”
“Che?”
“E’ un pasticcio questo discorso.”
“Eri un poeta.”
“Sì, come no!”
“Perché sei qui?”
“Dove?”
“A Firenze.”
“Ah!”
“E allora? Perché sei qui? Ci sarà pure un motivo se sei tornato.”
“Immagino che debba concludere degli affari. O uno solo. Sono un promoter.”
“Forse. Ma le poesie?”
“Le poesie, quelle le scrivono i poeti. E se fossero furbi le scriverebbero sull’acqua.”
“Quanto cinismo.”
* * *
Mi svegliai d’ottimo umore. Forse avevo sognato, ma non ricordavo assolutamente nulla. Però sapevo d’aver sognato. L’importante era che non ricordassi.
A quel tempo fumavo ancora molto: accesi la prima sigaretta. Fumai in silenzio, poi scesi a fare colazione. La sala era vuota: non un’anima, neanche una che si potesse dire persa o capitata lì per puro caso. Feci colazione da solo: il mio corpo occupava uno spazio, una sedia, e consumava latte caffè e fette biscottate. Ero più reale di un’anima, qualunque possa essere il significato che l’uomo dà all’anima.
* * *
Non so come, arrivai davanti alla Chiesa di San Giuseppe in via delle Casine.
“E’ su progetto di Baccio d’Agnolo. Così attesta il Vasari.” Chi aveva parlato era un ometto sdentato, forse un religioso, ma aveva due occhietti da jinn che facevano pensare fosse un demone. “Nel 1405 si costituì a Firenze una confraternita dedicata a San Giuseppe: si riuniva in un oratorio vicino all’Ospedale del Tempio. La Vergine col Bambino è in un angolo di via San Giuseppe: si diceva che compisse miracoli. La devozione per questa immagine fu tale che permise alla Confraternita, per mezzo di offerte ed elemosine, di costruire la chiesa che vede.”
Ringraziai con un cenno del capo l’improvvisato cicerone, poi volsi lo sguardo altrove senza più curarmi di lui. Mi lasciai la Chiesa alle spalle: non m’interessava, avevo altro a cui pensare. Ero tornato per definire un affare. Sapevo solo che dovevo andare in un ostello della gioventù: il motivo m’era oscuro! Ma sentivo che quella era la strada da seguire. Me li feci tutti, e alla fine, istintivamente, trovai quello che m’interessava. Entrai.
Il ragazzo alla reception non aveva dimenticato il mio viso: m’aveva riconosciuto. Capii che doveva esser così da una sua smorfia.
“Allora, sei tornato.”
“Non lo so. Sono qui per affari.”
“Anche l’altra volta dicesti le stesse precise identiche parole.”
“Gli uomini d’affari come me non hanno un vocabolario molto assortito.”
Quello fece un’altra smorfia, di disgusto. “Già, me ne sono accorto.” Tirò su col naso, poi aggiunse: “In cosa posso esserti utile, questa volta?”
“Ho bisogno di alcune informazioni.”
Non sembrava sorpreso. “Potresti aiutarmi?”
”Spara!”
“Sto cercando una donna.”
Rise. “Sì, tutti noi. Che tipo di donna?”
Mi schiarii la gola ch’era secca a causa del troppo fumo. “Non è che la cerco veramente. Voglio solo sapere.”
“Capisco… qualcosa su di lei.”
“Esatto.” Gli passai un biglietto di grosso taglio. Quello lo prese senza fare una piega e lo intascò subito.
“Chi è?”
“Chi era!”, lo corressi.
“Come vuoi tu. Il nome?”
“Non lo so.”
Prese a ridere. Ma il mio sguardo severo lo fece presto tacere. “D’accordo! Non sai il nome. Ma io come posso esserti d’aiuto?”
“La conosci.”
“Ah! Ti riferisci a quella donna…”.
“Esatto.”
“Quella che ti accompagnò qui.”
“Immagino che si possa dire così.”
”Non eri cosciente. Non completamente. Più di là che di qua.”
“Tu sai perché ero mezzo andato?”
“Ubriaco forse.”
Sospirai. “No, non credo. Ad ogni modo, tu l’hai vista. Sai dirmi chi fosse?”
“Te l’avrò detto un migliaio di volte. Il rito è sempre lo stesso… ti presenti qui, e il dialogo è lo stesso, e la conclusione…”.
“E la conclusione?”
”Non c’era nessuno con te!”
Bestemmiai. “Ma se avevi detto quella!”
“Vero. Quella!”
“Vuoi parlare o te le devo cavar con le pinze ‘ste dannate parole dalla bocca?”
“Era semplicemente QUELLA. Non era una persona. O meglio, lo era. Ma era come se non esistesse.”
Accesi una sigaretta. Il ragazzo alla reception non disse nulla: l’avevo oliato pesantemente, sapeva che non poteva dirmi un cazzo.
“Hai un affare con QUELLA?”
* * *
Accesi il televisore: solo nevischio. Misi una sigaretta fra le labbra: le spire di fumo si fecero spesse. Mi sentivo stanco. Spenta la cicca, mi lasciai cadere sul letto: e m’addormentai subito.
“Allora, l’hai trovata?”
“Chi?”
“QUELLA.”
“No.”
“E ci tieni a trovarla, non è vero?”
”E’ una questione…”.
“Non dire di affari. Non ti credo.”
“Non mi credere. Per me fa lo stesso.”
“Sai darmi una definizione di ‘gioco’?”
“Attività svolta da una o più persone per divertimento.”
“Esatto. E’ stato divertente?”
“Forse che sì, forse che no!”
“Falla finita col dannunzianesimo spicciolo.”
“Non ho altro. E non so neanche di che stai parlando.”
“Lo sanno tutti che QUELLA ti giocava.”
“E allora? Dovrei essere scandalizzato?”
“Era Violetta. Una delle tante. Voleva esser solo questo per te.”
“Che intendi dire?”
“Solo quello che ho detto.”
“Fottiti. Non mi dici niente anche se parli tanto.”
“E’ un computo ermetico. ‘E non c’è niente da capire. Mia moglie ha molti uomini, ognuno è una scommessa perduta ogni mattina nello specchio del caffè.’ ** E’ un computo ermetico.”
* * *
La stazione era gremita di persone: un gran vociare, inintelligibile. Ero circondato da alieni e il mio treno non sarebbe partito prima di un’ora: avevo tutto il tempo per perdermi in quella babele di corpi, per cercare di capirli, ma ero stanco, troppo perché potessi tentare una simile impresa. Mi risolsi d’andare in sala d’attesa: faceva freddo nonostante il riscaldamento. Avevo una copia economica de La Divina Commedia: cercai di leggere qualche endecasillabo, ma la poesia non faceva proprio per me. Per me, la poesia era solo una commedia: gettai il libro in un cestino… “Canestro!” Mai spesi soldi in maniera peggiore: per fortuna avevo preso un’edizione di quelle economiche, da stazione ferroviaria, in un’edicola. Chissà perché m’era preso l’uzzolo di provarmi a leggere della poesia!
Il mio capo cominciò a ciondolare…
“Alla fine non l’hai trovata, come sempre. Ma è come se l’avessi raggiunta.”
“Immagino di sì. Non c’è più niente che mi trattenga qui.”
“Lo sai che tornerai, nonostante tutto.”
“Sì.”
“Allora è un addio!”
“Diremo sempre le stesse cose per quante vite un uomo possa vivere.”
“Già.”
“Sbrigheremo sempre gli stessi affari… sempre. All’infinito. Ma non arriveremo mai a concludere veramente.”
“E la poesia?”
”Una commedia ma non divina.”
“Peccato.”
“Solo una questione di punti di vista.”
“Forse un giorno ricorderai la poesia.”
“Ho i miei dubbi. Se un dio c’è, pregherò perché mai accada che di me si possa dir poeta.”
“Umiltà?”
“No. Assolutamente no. Sono contro l’umiltà. Arroganza. Solo l’arroganza è onesta.”
“Ed ora che farai?”
“Immagino che prenderò il treno che mi porterà a casa.”
“E poi?”
“Poi nulla più. Almeno fino alla prossima vita, se ci sarà. Ma ne dubito.”
“E Anima?”
“Intendi QUELLA? Be’, non è terrestre. Non c’è niente da capire.”
“E Venere?”
“Si vivrà per un’altra Venere, più umana. O reale.”
“Ricordi… qualcosa?”
“No. Neanche quello che abbiamo detto sino ad ora.”
* * *
La mia cabina: vuota. Siedo da solo: non potrebbe essere diversamente. Non fumo più: ho perso il vizio. Sono passati parecchi anni e neanche più li conto i viaggi. Non sono un buon padre di famiglia: sono sempre lontano, lontano. Ma lei mi ama. Ma loro, i miei bambini, mi amano e forse non sanno perché. A volte mi penso come un vecchio lupo grigio: volente o nolente, qualche poesia sono stato costretto a digerirla, ma la colpa è tutta di mia moglie così fissata perché abbia un’anima. Me lo ripete in continuazione che è importante averne una, ed io sempre le rispondo che sono più reale di un’anima: sono un corpo e occupo spazio nel suo cuore come nell’appartamento che ci ospita. Occupo spazio in ogni dove che lei occupa anche quando sono lontano, come adesso.