Decimati dalle inchieste giudiziarie, alle prese con una crisi congiunturale difficile, stressatidalla incontenibile necessità di mezzi finanziari, i capitani coraggiosi calati dal nord per risollevare le sorti della nostra compagnia di bandiera, a cinque anni di distanza, non sembra abbiano raggiunto lo scopo.
Continua l’agonia dell’Alitalia, stretta fra una esigente richiesta di apporto finanziario, la crisi congiunturale e le difficoltà di governance mai risolte. Servono soldi freschi e anche con unacerta speditezza, di aumenti di capitale visto e il periodo e la situazione finanziaria, neanche a parlarne.
Non è andata bene neanche il prestito obbligazionario da 150 milioni richiesto sul mercato, le adesioni non hanno raggiunto nemmeno i 100 (95 per l’esattezza). Nessuna novità circa l’entrata di nuovi soci, come l’ipotesi ventilata di Air France, nulla di fatto, i bilanci non rosei della compagnia non lasciano molti margini.
Il cavaliere bianco arriva in soccorso dal nord
Chiamati dall’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi – a difesa dell’italianità si disse – con l’apporto di Intesa San Paolo allora guidata da Corrado Passera, il salvataggio fu messo in opera da Roberto Colaninno e da una cordata di imprenditori del nord, fra cui lo stesso Carlo Toto, patron di Air One, quest’ultima confluita nella compagnia aerea.
Presentati come i moderni salvatori della patria, il consiglio di amministrazione formato da esperti, imprenditori e manager con alle spalle una solida e maturata esperienza, tentarono un’operazione che doveva trasformare la compagnia in società redditizia, solida ed competitiva.
Alitalia certo non è nuova a benefici statali e aiuti finanziari, del resto è un’azienda pubblica (il tesoro è ancora azionista di riferimento), un prepensionamento fino a sette anni per il personale prossimo al collocamento a riposo, una parte dei debiti accollati all’erario, cioè a noi contribuenti, si parlò di circa tre miliardi, rotte in regime di monopolio mai scalfite, come la redditizia Roma – Milano ancora oggi considerata la gallina dalle uova d’oro.
Per la liquidazione dei rami secchi, viene chiamato con l’incarico di commissario straordinario Augusto Fantozzi, con il compito di vendere gli asset non strategici e valorizzarne la società, ma l’impresa si rivelò ardua, e tempo fa arrivarono le dimissioni.
Il Cda alle prese con i guai giudiziari.
La magistratura non ci è andata leggera con i capitani coraggiosi calati a salvarla, molti gli indagati e qualcuno con accuse anche pesanti; tre sono agli arrestati domiciliari per vicende non legate alla società. Emilio Riva, il re dell’acciaio con una partecipazione e 10 % ha un’accusa per la gestione Ilva, indagato anche il re delle cliniche romane Angelucci, per truffa allo stato, mentre in Svizzera ma non può rientrare, pena l’arresto, si è stabilito il figlio di S. Ligresti (Paolo) arrestato per l’affare Fondiaria. Guai per F.B. Caltagirone (frode fiscale)…
Per capire come era gestita Alitalia, basti pensare che il giudice per le indagini preliminari ha rinviato a giudizio 7 manager fra cui Francesco Mengozzi, Giancarlo Cimoli, e altri 5, ex amministratori delegati e presidente della compagnia di bandiera dal 2001 al 2007. L’accusa è di aver provocato il dissesto finanziario di Alitalia, ovvero di averne provocato la bancarotta.
Indagato dalla procura di Roma, anche Elio Catania. vicepresidente di Alitalia, al fianco di Colaninno, per insider trading e Steno Marcegaglia. Quest’ultimo pur non essendo nel cda, aveva una quota nella società e comunque era già noto alla magistratura che nel 2003, lo condannò in primo grado per il crac Italcase/Bagaglino. Lo stesso Carlo Toto era stato arrestato con un funzionario Anas durante il periodo Mani Pulite per falso.
Insomma certo no si può dire che la compagnia sia stata messa in buone mani…
Le accuse sono così pesanti che Sel ha chiesto una commissione d’inchiesta che chiarisca le cause e le modalità che hanno portato – stando alla relazione introduttiva della richiesta – alla socializzazione delle perdite e ad un illecito arricchimento degli industriali intervenuti nel salvataggio. Sotto inchiesta la sottovalutazione degli slot in possesso alla compagnia, delle cessioni e degli asset trasferiti o ceduti, il reale costo sostenuto dallo stato nell’intervento di salvataggio, il ricorso sproporzionato a forme di ammortizzatori sociali per il personale, i settemila posti di lavoro persi, fra personale di volo, compresi piloti e a terra.
Si è parlato di produttività bassissima: orario di lavoro irrisorio, 40 ore di volo al mese, quando il valore della concorrenza è circa il doppio, privilegi e situazioni paradossali: partenze da aeroporti diversi, soggiorni costosissimi, festività considerate come riposo, indennità stratosferiche, stipendi per i top manager da capogiro. Strategie dell’impresa completamente sbagliate, basta per tutte l’affaire Malpensa, un piano industriale debole per una società che opera in un contesto altamente concorrenziale.
Sprechi inaccettabili per qualsiasi compagnia aerea privata.
Nell’ultimo bilancio disponibile, il 2012, invece di utili si parla di perdite che dovrebbero attestarsi attorno a 200 milioni. A quanto pare i capitani coraggiosi moderni, capitani di ventura, calati dal nord, per salvarla non solo sembrano abbiano fatto cilecca ma la situazione della compagnia non s i discosta poi tanto da quella iniziale. A questo punto se non si interviene con un piano aziendale forte e credibile la situazione potrebbe precipitare per una società alle prese con la spietata concorrenza dei voli low cost.. A distanza di nemmeno cinque anni, Alitalia, si ritrova con le casse vuote e prospettive future desolanti.