Ci sono film radicali-per rigore espressivo,
azzardo stilistico, slancio poetico- e film paradigmatici, che non
innovano nulla però riescono a dire qualcosa sullo spirito dei tempi.
Inserendosi nelle fratture di un quotidiano venduto sempre e comunque
(ma ormai la cosa ha assunto i contorni entusiastici della disperazione
malcelata) come allegro, risolto e pacificato , ne svelano la precarietà
e l'utentico aspetto di tormentata transizione. E' il caso di "All is
Lost", appena arrivato tra noi (titolo che, a pensarci mette, tutto
sommato, di buonuomore o se non altro contrasta di primo acchitto quel
senso di soffocante "pienezza" che ammorba i giorni). Vicenda questa di
un uomo, vecchio, costretto al contatto con un elemento altrettanto
vecchio, il Mare- e di con quanta nettezza e irriducibilità si riallacci
un rapporto una volta venute meno le baldazose quanto fragili barriere
che uno strumento, la Cultura nella sua forma di massima razionalità, la
Tecnica, aveva eretto fra loro, al punto da arrivare a negarne
l'esistenza.
Redford, uomo in fuga?, di certo naufrago,
alla deriva in qualche punto remoto dell'Oceano Indiano, riannoda di
froza e sul proprio corpo i fili di una corrispondenza che neanche la
Tecnica -tantomeno il capitale e le merci- ha saputo surrogare con la
sola quantità dei desideri. degli stimoli, degli oggetti, esauditi,
assecondati, posseduti o, di contro, frustrati, repressi, mancati (i
"pezzi forti" dell'armamentariato "moderno" sono i primi ad essere
spazzati via dalla logica essenziale della Natura. Tradiscono, questi,
sofisticatissimi e inutili, proprio nel momento del bisogno). Riscopre
la solitudine laboriosa, spossante (pure inconcludente) che la Tecnica- e
ancor più il capitale e le merci- hanno tentato di esorcizzare con la
spensieratezza inerte, l'allegria indotta o di riporto, la "facilità"
persuasiva ma inappagante.
In tal senso, "All is Lost"
diventa paradossalmente davvero radicale, al di là della sua struttura
formale. Ossia quando ciòè spinge l'esemplarità del suo assunto al punto
di non ritorno, di una rappresentazione tanto materiale, fisica, nel
suo svolgersi, quanto simbolica nella limitata, quasi rituale,
reiterazione dei suoi gesti, misurati, precisi, come asciugati e
rifiniti dalla prossimità con laMorte, interlocutrice che non ammette
parola ma invita e predispone all'ascolto del linguaggio primo, quello
circolare delle onde; quello impazionete delle tempeste che non
tarderanno ad arrivare: quello muto ma incessante delle moltitudini
sottomarine. Linguaggio e ordine che non ha bisogno di cambiare senza
tregue meramente utilizzando il contesto in cui agisce; che nella
ripetizione e nella trasformazione lenta ma costante trova il suo senso
e, di fatto, si sacralizza, e a cui, riconosciuto il ruolo di matrice
originaria e il legame che ad esso vincola, consegnare le parole
dell'addio: "Ho lottato fino alla fine. Non sono sicuro che ne valesse
la pena. Ma l'ho fatto. Mi dispiace". Perchè "la Tecnica è di gran lunga
più debole della Necessità". Oh si.






