Vado a letto e mi dico che devo solo riuscire a smettere di pensare. Ho bisogno di riposo. I giorni in cui apro gli occhi e mi scopro sfinita sono i peggiori.
Quando non vado a letto, dormo un divano che non mi appartiene, pianto la fronte contro una rete che mi separa dalla ferrovia, seggo su panchine illuminate da un lampione, perché non ho il coraggio di tornare a casa e affrontare me stessa.
Attendo con ansia che le giornate limpide tornino a me, come il giardiniere guarda al proprio roseto devastato dagli afidi, sperando nella mera sopravvivenza delle sue piante. Aspetto che qualcuno riesca a leggere le mie occhiaie e le forme irregolari delle mie unghie, che li legga come un libro dai caratteri grandi, come uno slogan pubblicitario banale.
A volte devo guaire per ore, per sopportare, per poter tornare ad un punto in cui dormire diventa di nuovo possibile. Attraverso muri di carta, altri esseri umani possono sentirmi. Un tempo tale consapevolezza mi spingeva a soffocare, a tapparmi la bocca con cuscino. Ora non provo più vergogna. Non ho più controllo sull'imbarazzo di chi mi percepisce a pezzi.
Solo in pieno giorno torno a nascondermi, perché le battute goliardiche degli sconosciuti che vedono in me solo un soggetto bizzarro lasciano la gola arsa. Quando sono in me non ho parole. Preferisco il silenzio.
Ero una bambina quieta. Sono stata premiata per questo, e fatta a pezzi da chi usava la lingua senza che ciò fosse motivo d'ansia.
Preferisco il silenzio. Nessuno conosce le parole giuste. Ogni parola sbagliata lascia un graffio sul mio costato, che scopro con meraviglia al risveglio. E' la forma irregolare delle mie unghie.
La risposta sta nelle dita, nei disegni volatili che producono su una schiena.
Le parole mi deludono, così come la loro assenza.
Rifiuto le parole con la scelleratezza di chi punteggia il proprio vocabolario con aggettivi desueti, solo perché suonano bene. Uso espressioni dialettali perché non vi è stata data una traduzione che mi soddisfi. Lascio che il suono della mia voce divenga orribile alle orecchie di chi sa parlare. Le parole di chi sa parlare con supposto equilibrio fanno sanguinare il mio patetico cuore.
Se interpreto me stessa, raccolgo mezze parole, parole non dette, parole cosparse di chiodi. Questo genere di parole oscurano tutte le altre; quelle consolatorie, gentili, dolci.
I giorni scorrono nebulosi. Ascolto il freddo sulle dita, prendo treni, leggo qualche pagina.
Lucida lo sono soltanto quando, con fatica, abbandono la città e, lungo la strada, ritrovo in me la gioia della ricerca. Scarico la bici dal treno e pedalo in salita. Ascolto ragazzi e ragazze di sedici anni parlare di come hanno imparato ad ammazzare i conigli, del lavoro in stalla e del senso di libertà che provano nei boschi. Mi faccio disegnare il posto da cui vengono, mi abituo al suono delle loro voci, imparo parole nuove. Nei momenti morti osservo, mi bagno i piedi sull'erba inzuppata di pioggia, annuso l'aria. Mi costringo a vivere quei momenti morti, perché ne ho bisogno, prima di tornare ad ascoltare, prima che faccia buio, prima che il treno mi riporti nell'ennesimo luogo in cui non ho parole, mie o altrui.