Alla fine della fiera è il primo libro di Federico Ferrero, che di mestiere fa il giornalista e attualmente commenta il tennis per Eurosport e scrive su L’Unità e su Tennis Magazine.
Una (lunga) nota sull’autore: conosco Federico dai tempi della scuola, io più grandicello che individuava con l’arroganza dei ragazzetti del liceo tra i nuovi arrivati al ginnasio quello tra loro che tutti dicevano essere un dio con la racchetta.
«Ehi, mi dicono che sei bravo a tennis. Domani pomeriggio andiamo a giocare».
Federico non era soltanto bravo con la racchetta: lui di tennis sapeva tutto. E ci sarebbe spazio, se l’Italia fosse tennisticamente evoluta e i commentatori e i giornalisti del settore fossero popolari in maniera proporzionale ai campioni, per raccontare della sua carriera, di come la madre si lamentasse perché non dedicava tempo alla giurisprudenza preferendo passare i pomeriggi a guardare – erano i tempi delle gloriose vhs con le immagini sgranate, con i puntini che disturbavano l’incrocio delle righe – vecchi incontri di doppio tra cileni sconosciuti.
«Il tennis non ti darà da mai mangiare. Studia Federico, studia….», gli diceva.
E invece, anni dopo...
Per dire: io c’ero, ma commetterei peccato mortale se non parlassi di questo libro in maniera obiettiva.
C’ero anche quando i pomeriggi, anni dopo, li passava a informarsi e a studiare il caso Kennedy, di cui è arrivato a essere uno dei massimi esperti italiani. A un certo punto ricordo che prendeva un foglio a quadretti, una biro e si metteva quasi autisticamente a scrivere.
«Cosa fai?», chiedevo.
«Niente, verifico se ricordo ancora a memoria i nomi di tutti i testimoni dell’assassinio».
Se non dico fesserie, erano cinquecento: li sapeva tutti, tutti i Jack Smith o i Bill Johnson che erano là al momento dello sparo.
Federico è uno così: quando gli piace qualcosa, impara tutto.
C’ero anche quando, anni dopo, incominciò ad appassionarsi di Tangentopoli. Entravo a casa sua e in tv passavano di volta in volta – adesso in dvd – un interrogatorio, uno speciale del Tg5, una puntata di qualche approfondimento della Rai (quelle cose trasmesse in notturna), Di Pietro era già un politico ma lui lo osservava, lo studiava, cercava di capirlo, Di Pietro scorreva davanti a lui ancora magistrato. Di Pietro e gli altri: Patelli, Greganti, Mongini, Zamorani, di questi Federico conosceva il curriculum pubblico, ne aveva lette le (di alcuni davvero poche, di altri molte) interviste, aveva praticamente tutto quanto su di loro era stato scritto.
C’ero quando è uscita l’idea del libro, c’ero quando il libro era in costruzione, c’ero nei momenti di scoramento – scrivere un libro, sia esso un romanzo o un saggio, soprattutto se non si proviene dagli apparati del potere (Federico è nato in una delle province che in Italia contano meno, quella di Cuneo), come molti sapranno è una gran fatica –, c’ero quando il libro è andato in stampa.
L’idea è semplice: cos’è successo, alla fine della fiera? Dove sono finiti, cosa fanno ora, cosa dicono adesso alcuni tra i protagonisti di primissimo piano di quell’epoca che a un liceale di oggi sembra così lontana? E agli occhi degli altri, di quelli che c’erano, che effetto fa, oggi, pensare ad allora, a uno dei passaggi più critici dell’intera storia repubblicana d’Italia?
Ferrero intervista e lascia spazio ad alcuni dei principali attori di quegli anni, persone che non passava giorno senza che finissero sui giornali, persone ancora oggi altamente simboliche, ciascuno a modo suo, di quella “rivoluzione fallita”.
Luca Leoni Orsenigo, il leghista che appare quasi ovunque nella foto più rappresentativa: lui, deputato della Lega Nord, che agita il cappio dagli scranni di Montecitorio.
Luca Magni, l’imprenditore che con una denuncia raccolta da un capitano dei carabinieri diede il via formale al lavoro del pool di Milano che scardinò tutto il sistema.
Roberto Mongini, l’avvocato democristiano paradigma della politica fatta in quel modo.
Alberto Mario Zamorani, il manager pubblico più volte arrestato, che reagì alla galera con grandissimo spirito al punto da scrivere su L’Espresso una serie di consigli per il detenuto colletto bianco che varca le prigioni.
Chiara Moroni, figlia del deputato Psi Sergio Moroni che al contrario non sopravvisse all’impatto emotivo del coinvolgimento nell’inchiesta e si suicidò.
Primo Greganti, tesoriere del partito cui i giudici si interessarono meno, il Pci, con tutta la serie di polemiche mai sfiorite.
Alessandro Patelli, emblema di una condanna, quella della Lega Nord, di cui non c’è traccia nella memoria storica (oggi pochi ricordano che il partito che a quei tempi faceva della questione morale la sua bandiera fu condannato – nei nomi di Patelli e Bossi – per tangenti), quel “pirla”, come lo definì proprio Bossi scaricandolo, almeno pubblicamente, per levarsi la responsabilità dei duecento milioni intascati illecitamente.
E c’è di tutto, nel libro: da aneddoti del backstage di quelle sette vite pubbliche (per quelli che preferiscono i romanzi) alle considerazioni politiche (per quelli che cercano utili elementi aggiuntivi per l’analisi ex post), da chiavi di lettura nuove (qualche intervistato non si esime dal tentativo di razionalizzare una specie di teoria di Tangentopoli) a nuove rivelazioni (che sono state riprese, ciascuno pro domo sua, dai principali quotidiani italiani, per polemiche attuali).
Ci sono storie bellissime: l’ascesa di Leoni Orsenigo, ad esempio, da negoziante di apparecchi per la ricetrasmissione a uomo della Lega in commissione di vigilanza Rai (un po’ come succedeva a militare, dove se eri volontario in croce rossa finivi a far servizio in infermeria); la vita in strada, nella Torino anni ’60 molto chiusa con gli immigrati, di Greganti, prima del lavoro in Fiat raccomandato dai preti – lui che i preti li mangiava – e la successiva carriera nel partito; il rapporto tra Patelli e Bossi, che per molti aspetti è uno spaccato sociologico di quei tempi – la fine degli ’80, l’inizio dei ’90, una politica leghista davvero epica.
Il lavoro di Ferrero è interessante anche per questo: i personaggi – le persone come si sono raccontate, pezzi di vita privata in aggiunta a cosa già era pubblico – sono eterogenei e complementari, il quadro d’insieme è un racconto prezioso che aiuta a comprendere cosa è stata davvero Tangentopoli e che irrimediabilmente porta il lettore all’enigmatica questione che assale girata l’ultima pagina: come funzionano, adesso le cose? Questione che l’autore stesso anticipa nell’introduzione: “Abbiamo avuto i morti, abbiamo cacciato alcuni ladri, abbiamo dato fuoco al palazzo, ma forse abbiamo chiesto ai giudici quello che non potevamo avere: renderci italiani migliori”.
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