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Alla nonna

Creato il 18 dicembre 2010 da Bruschidettaglil

I capelli neri neri, solo pochi fili d’argento. I babbà e la gazzosa, ago e filo per dare colore anche al pezzo di stoffa più grezzo. Solo da pochi anni si era convinta a mettere i pantaloni. Ogni tanto parlava in dialetto, un calabrese stretto, ma tanto io e mio fratello lo abbiamo sempre capito. Mi ha chiesto di scrivere la nonna Maria. Mi ha chiesto di scrivere qualcosa per lei, la voce sottile, dal letto dell’ospedale. Le ho detto che ci saremmo viste domenica, ma non c’è stato tempo. Scrivere per lei, quando me lo ha chiesto, mi è sembrato ricordare qualcuno che non c’era più. Eppure lei c’era, era lì a chiedermelo. Ora posso, possiamo, solo ricordare.

I panini mangiati in mezzo a via Lomellini, sui gradini di quell’antico portone nel cuore di Genova, perché in casa non volevo toccare cibo. La moneta in cambio di un fazzoletto, perché se no – mi diceva – “lo userai solo per asciugarti le lacrime”. Le piante curate sul balcone di casa, da un rametto potevano ancora spuntare le foglie. La farina sul tavolo per preparare gli scillatielli, le frittelle di ricotta e quelle di patate. L’insalata russa, i ravioli. Il grembiule che solo in Calabria metteva, per fare la salsa, per cucinare. La musica e i fotoromanzi di Grandhotel. Ci ha sempre chiamati i suoi principini, e così ci ha sempre trattati. Sorrideva sempre, piangeva spesso. Le sue erano lacrime amare, nei confronti della vita. Quella vita che le ha strappato un marito giovanissimo lasciandola sola con quattro bambini, in una città non sua, lontana dal paesino dove era nata, Gimigliano. Genova è una città che ha scelto, in cui ha lavorato, cresciuto i figli, i nipoti. Ma è una città che ha sempre lasciato, almeno per qualche mese, per tornare tra le curve della collina dove è nata. Per raccogliere le olive, potersi sedere sul muretto di pietra e godersi il passaggio della gente, per respirare un’aria più sua.



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