Alla riscoperta del rispetto: L’ regul di Edda Baioni Iacussi
di Lorenzo Spurio
[T]u p.r campà npò mej in puisia hai da p.nsà…[1] (40) Scrivo perché la penna non trema come la mia voce. […] Scrivo perché poi mi rileggo per riuscire a capirmi. (75)
Ho scoperto la poetessa dialettale senigalliese Edda Baioni Iacussi recentemente, meno di due mesi fa quando, presso la Biblioteca Antonelliana della sua città, ho preso un volume in prestito dal titolo “Na manciata d’calcò” corrispondente per l’esattezza, alla sua prima silloge poetica pubblicata nel 1998 e alla quale è seguita a distanza di dieci anni “Ch.l mors d’mela”. L’ho conosciuta poi direttamente lo scorso Agosto a Marzocca di Senigallia durante la presentazione del suo terzo volume, “L’ regul”, libro del quale ho intenzione di parlare qui, in questa circostanza.
Com’era stato nei precedenti volumi, la poetessa ha dedicato una prima parte del libro alle poesie in dialetto (quelle che a mio modo di vedere trasmettono in una maniera ineguagliabile sentimenti, emozioni e la forza del dialogato) e una seconda parte di liriche in lingua. Propedeutica e fonte di riflessione è la nota di prefazione firmata dal critico letterario Giuliano Bonvini in cui traccia a largo del tempo una sua ri-considerazione dell’utilizzo del vernacolo in poesia.
Edda Baioni Incussi è una donna che dona senza veli né riserbo le sue idee sul mondo, recuperando sia i momenti dolci del passato, sviscerando ricordi curiosi che sono resi indelebili nella sua mente e nel suo cuore e al contempo proponendoci pagine di analisi sulla società contemporanea, tanto diversa da quel ieri in cui –leggendo tra le righe- la Nostra localizza un età di splendore fatta di rispetto per gli altri, di riconoscenza e di solidarietà, oltre che di un vissuto votato all’autenticità.
La comprensione del dialetto senigalliese è per me qualcosa, se non di scontato, di estremamente facile (vuoi per la mia vicinanza fisica a Senigallia, vuoi per frequentarla) e laddove si presentano termini che possono sembrare leggermente criptici, nella maggior parte dei casi sono comunque intuibili. Con questo va subito fatta una piccola precisazione nel dire –come già hanno sostenuto in tanti, più o meno noti- che il dialetto di Senigallia è tipico e caratteristico del suo territorio (sono addirittura possibili dei sotto-dialetti, delle varianti, nel caso delle zone di Marzocca e Montignano) e non assimilabile in quello della Provincia a cui appartiene (non esiste un dialetto della Provincia di Ancona) né tanto meno a quella con la quale è più prossima al confine (Pesaro-Urbino) sebbene ci siano qua e là degli elementi che l’avvicinino al fanese (ma non al pesarese), molto di meno di quanto sia avvicinabile all’anconetano o allo jesino.
Ciò detto, il libro in questione è stato voluto da Edda Baioni Incussi per parlare di una società che cambia nel tempo e che nel presente osserva il suo stato di evoluzione (in tante cose quali l’industria e l’informatica), ma al contempo di involuzione (nei sentimenti, nel rispetto). Il titolo non poteva essere più chiarificatore di questa necessità di andare a riscoprire vecchi modelli per renderli attuali, di tenere a mente quelle che sono le regole semplici, del buon uso, del sano convivere, affinché non si maltratti l’ambiente, non si offenda l’altro e non si legittimi la violenza. Le regole esistono –ha osservato la poetessa nel corso della sua presentazione- il problema è che non le osserviamo, che non le facciamo nostre, che non le contestualizziamo nel giusto spazio o momento. E’ un annuncio questo che non intende gettare nella paranoia, ma che si nutre semplicemente di una osservazione cauta e scrupolosa di quanto avviene attorno a lei dove indifferenza, sconsiderazione, maltrattamento e iniquità sembrano essere gli attributi di una legge morale degradata alla marginalità. Per questo la Poetessa titola il libro con ‘L Regul come per dire che questo dovrebbe ritornare ad adoperarsi, ad essere osservato, denunciandone nella lirica d’apertura il rispetto nei confronti di queste leggi che l’uomo si è dato per il suo bene comune: “a risp.tall/ nun c’ pensa nisciun”[2] (15). Ed ancora, nella chiusa della poesia la Edda incalza, sottolineando con audacia il deleterio menefreghismo dei più: “L’ regul c’enn tutt/ ma enn butat al vent/ p.rchè… ma no’ italiani/ nun c’ n’ frega gnent!”[3] (15).
Le componenti concettuali di questo libro che ha molto da insegnare sono tracciate brevemente da Bonvini nella prefazione: dall’amore al sociale, dalla cronaca all’esigenza della fede, dal ricordo alla speranza, dalla natura incontaminata alla città cementificata. Partirei allora dalla cronaca, che la Edda ha voluto segnare sulla carta per mettere in evidenza, in particolare quel sentimento di ripudio di norme civili, morali e umane sulle quali dovrebbe garantirsi non solo la buona convivenza, ma anche dar concretezza allo spirito cristiano d’apertura, amore e solidarietà verso gli altri. Colpiscono alcuni dei fatti di cronaca sui quali la Edda ci offre squarci lirici, ben intuendo che sono stati eventi traumatizzanti e dolorosi da conoscere e da rielaborare come quello di una ragazza che, per non si sa quale ragione, viene colpita in strada da un uomo con violenza (mi ricordo a proposito un fatto del genere accaduto in una metropolitana di Roma pochi anni fa, ma non so se la Edda si riferisca proprio a questo) e, una volta caduta a terra priva di vita, dato che poco dopo la poetessa la chiamerà “’na donna […] murent”[4] (18), la Poetessa, incredula e offesa dalla malignità umana, osserva lapidaria: “La gent passa/ i da’ na guardata/ s’ scansa ‘m tantin/ ma nun s’è curata…”[5] (18). La cronaca nera ritorna nella lirica dal titolo “La pr.s.ntatric” in cui la Edda si riferisce alla visione di un telegiornale tipo dei nostri giorni dove non fanno che abbondare le notizie crudeli di stupri, offese, aberrazioni e violenze di vario tipo; la Poetessa cita un caso di omicidio stradale (reato, ahimè, ancora non contemplato dalla nostra Giurisdizione Penale), il caso di un infanticidio commesso dalla madre, calamità naturali quali una valanga in montagna e un grave sisma che “distrugg ‘l paes”[6] (43). La domanda finale, pulita e perentoria, è chiaramente retorica, ma la facciamo nostra perché tutti ogni giorno ne condividiamo il contenuto: “Arivarà ‘n giorn/ che ncora lia/ trasmett ma no’/ un po’ d’al.gria?”[7](43).
La componente sociale del libro è molto amplia e densa; è un appello accorato al Signore affinché i mali del mondo vengano ridotti ed annullati: “Vuria ved la gent s.rena/ né mafiosi, né drugati/ mai più populi in miseria/ e l’ cursi(e) sensa malati”[8] (34), un mondo nel quale vengano messe al bando la violenza e la spregiudicatezza (le organizzazioni criminali), la piaga dell’abuso di droghe, la miseria e le patologie. La Edda donna è irreprensibile nei confronti di atteggiamenti disumani, deleteri alla dignità, offensivi ed usuranti come la prostituzione e la mafia e non fa sconti alla prepotenza e alla indifferenza di ricchi e meno ricchi che perpetuano ed esasperano il divario tra abbienti e disperati tanto da farsi paladina del reietto o del dimenticato affinché possa godere del giusto rispetto e sia trattato con umanità: “Il povero si assistito/ come il ricco/ che il vecchio/ abbia ancora speranza…” (140).
Il passaggio degli anni non si identifica solo nell’invecchiamento fisico della nostra al quale ella stessa fa riferimento (“J anni nun pes.n/ si tu nun j conti”[9], 53), ma soprattutto nella metamorfosi dei comportamenti umani (l’abbiamo già detto abbondantemente) e degli spazi fisici in cui la Poetessa vive e ai quali è legata. E’ così che la Marzocca natale, quella sorta di eden di pace, spensieratezza e felicità, ci viene oggi consegnata diversamente come una spiaggia che sembra essere stretta, piena di persone, vocii e confusione, mentre una volta era un luogo ancora non preso d’assalto dai villeggianti e completamente naturale: “Prima d’ st svilupp/ al mar nun c’ s’ andava/ arivava ‘l cuntadin/e vacch e pegur c’ lavava.// P.nsè ch’è ‘na caulata/ ma è la v.rità/ chi l’ha s.ntita dai vecchi/ v’ l’ pol sempr arcuntà…”[10] (67).
Le liriche ci trasmettono l’immagine di una donna sensibile, molto consapevole della sua condizione, che ha vissuto con profondità le varie vicende della sua esistenza, felice della sua famiglia e grata dell’ambiente attorno a Marzocca dominato dal mare nel quale è nata ed è vissuta. In tutto ciò, se da una parte la Poetessa avanza spesso dei pensieri sull’anzianità, dall’altro troviamo una donna molto giovane internamente, che ha tanto da rivelare e donare a tutti noi; con questo libro ci invita in maniera poetica a riscoprire quelle piccole condizioni che l’uomo stesso nel tempo si è messo, autogestendosi, per salvaguardare se stesso e la natura, per garantirne un futuro. E se la parola “regole” può sembrare troppo dura e sanzionatoria, allora è bene ricordare che la Edda parla delle regole non come ne parlerebbe un vigile, né un giudice, ma piuttosto come ne parlerebbe una persona che ama la sua terra in maniera sanguigna, riversando in queste piccole “prescrizioni” delle avvertenze la cui osservazione e concretizzazione non costano né tempo né soldi. E’ in questa maniera che la Poetessa tratteggia una società d’oggi caratterizzata dal caos dove l’uomo è sempre in corsa contro il tempo, tanto da divenire una sorta di caricatura o addirittura un automa, dove le nuove generazioni, caparbiamente fedeli alla scienza dell’informatica e dell’ultratecnologia, sembrano aver perso la consuetudine della considerazione di sé e degli altri, il rispetto e, dunque, anche quel livello di educazione basilare nel gestire la propria vita. Non è una questione di cultura, secondo la Edda, perché si può studiare tanto, essere laureati e poi non possedere il “regul” e allora, forse, diventa un problema non tanto del singolo, ma di una società tutta che è sempre meno attenta ai momenti di socialità, di sana convivialità e di apertura, di condivisione compartecipata senza finalità meramente legate a istinti egoistici o merceologici. Il rispetto allora non è che sia morto completamente, ma va in qualche modo incentivato e riscoperto, riattualizzato nella sua validità, fatto conoscere, un po’ come quelle regole delle quale ci parla Edda che, esistono, ma è come se non ci fossero perché nessuno le rispetta: c’è chi le dimentica, chi finge di sapere che non esistono, chi invece opportunisticamente le aggira.
I tre imperativi morali allora nei quali la Edda mostra che coesiste quell’attitudine sana e solidale stanno forse in tre concetti di fondamentale importanza sui quali uno stato democratico, sia esso rappresentato da una metropoli, da una città capoluogo o da una zona di provincia, dovrebbe fondarsi: “Fed, Amor e Lib.rtà”[11] (19). Ciò che preme sottolineare ad Edda in quella necessaria e tumultuosa ricerca dell’approdo del rispetto, è una delle sue forme più sacrosante: l’onestà che è poi una manifestazione privata di rispetto che abbiamo nei confronti di noi stessi. All’onestà, a questa nobile virtù che non è di tutti[12], la nostra dedica una poesia in cui conclude: “L’un.stà è ‘na cumpagna/ ch’ nun t’ha da lasà mai/ si tu la tieni stretta/ la vita tua… è prutetta”[13] (61).
La parte più interessante e vivida del libro secondo me è proprio quella in dialetto perché questa lingua ha la forza di trasporre sulla carta non solo un concetto, ma di darne anche l’estensione emotiva, la carica di coinvolgimento, l’empatia dei parlanti o del soggetto che osserva una realtà cogliendola dalla sua prospettiva. Ritroviamo, com’è nella tipica consuetudine della letteratura in vernacolo, anche poesie più dichiaratamente dal gusto comico e altre nelle quali un’ilarità di fondo è presente nei rapporti dialogici che si intrattengono tra più protagonisti (soprattutto marito e moglie, ma anche un uomo e i suoi amici) dove non manca un certo risentimento da una o più parti, un intento di “attaccar briga” o di punzecchiare l’altro con la battuta più spontanea e diretta, come avviene tra marito e moglie in “Fortuna la dota!” in cui i due, in camera da letto non riescono a prender sonno e finiscono per parlare di varie cose tanto che alla fine –non si sa come, né perché- finiscono per discutere su qualcosa. Quella cagnara che spesso si configura tra le stereotipate conversazioni marito-moglie nelle costruzioni poetiche in vernacolo è interessante e degna di una maggiore osservazione: la donna accusa l’uomo di qualcosa che non ha fatto, che ha fatto male o di non ricordarsi qualcosa, dall’altra la donna mostra un atteggiamento troppo irruento e quasi di dominazione sull’uomo che alla fine finisce per apparirne come la vittima della situazione. Questi siparietti di vita domestica descritti dalla Edda con insaziabile generosità e un linguaggio pungente che ne trasmette la vitalità delle battute sono senz’altro ben riusciti e ci tramandano immagini di un’età provinciale, domestica, votata alla semplicità di decenni fa che ora abbiamo perso, proprio come il pregare assieme a tutta la famiglia dinanzi al caminetto dove il nonno sgrana il Rosario e tutti recitano le preghiere mentre “La tremula fiamma/ scoppietta serena/ da un caminetto/ che ha i segni del tempo” (143).
Lorenzo Spurio
-scrittore, critico letterario-
Jesi, 25.09.2014
[1] Tu per vivere meglio/in poesia devi pensare…
[2] A rispettarle/ non ci pensa nessuno.
[3] Le regole ci sono tutte/ ma noi le buttiamo al vento/ perché… noi italiani/ non ce ne frega niente!
[4] Una donna […] morente.
[5] La gente passa/ dà una guardata/ si scansa un tantino/ ma non se ne cura…
[6] Distrugge il paese.
[7] Arriverà un giorno/ che sempre lei/ci trasmette/ un po’ d’allegria?
[8] Vorrei vedere la gente serena/ né mafiosi né drogati/mai più popoli in miseria/e le corsie senza malati.
[9] Gli anni non pesano/ se tu non li conti.
[10] Prima di questo sviluppo/ al mare non ci si andava/ arrivava il contadino/ e ci lavava le vacche e le pecore.// Penserete che è una stupidaggine/ ma è la verità/ chi l’ha sentita dai vecchi/ ve lo può sempre raccontare.
[11] Fede, Amore e Libertà
[12] A questo proposito c’è una lirica nel libro intitolata “C’era ‘na volta la… DC” in cui la Poetessa annota la sua delusione dinanzi a un vecchio mondo politico che si sfalda (La Prima Repubblica, nel 1994) a seguito di un sistema di devianza e di corruzione portato avanti dal processo a Tangentopoli. In questo caso, in particolare, la fine (o lo smembramento) della DC viene a significare nella nostra una sorta di salto nel buio nel quale è difficile potersi fidare delle nuove facce (con i loro nuovi partiti) che si propongono sulla scena.
[13] L’onestà è una compagna/ che non ti deve lasciare mai/ se tu la tieni stretta/ la tua vita… è protetta.