«La natura ci genera poveri, nudi si viene al mondo,
nudi si muore. È stata la malizia che ha creato i
ricchi, e chi brama diventare ricco inciampa nella
trappola tesa dal demonio.» (S.Antonio da Padova)
Povertà e denaro nel francescanesimo delle origini...Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni tenute all'Oasi Gesù Bambino di Greccio in occasione del convegno "I francescani e l'uso del denaro" organizzato dal Centro culturale Aracoeli.
di Roberto Lambertini, Università di Macerata
Volgendo lo sguardo alle testimonianze che riguardano il rapporto tra povertà e denaro i primi anni di vita della fraternitas francescana, salta subito all'occhio che l'attenzione alla questione del rapporto tra scelta del frate minore e denaro è notevole e significativa. Rileggendo il testo critico della regola più antica a noi pervenuta, recentemente riproposto con grande cura da Carlo Paolazzi, questo aspetto non può non colpire. Prima ancora di giungere al capitolo espressamente dedicato alla possibilità di ricevere denaro da parte dei frati, al capitolo ii si proibisce di accettare denaro o direttamente o attraverso intermediari in occasione dell'entrata di qualcuno nella "vita", mentre si ammette la possibilità di ricevere qualcos'altro, in caso di necessità, come accade agli altri poveri. Al capitolo vii si autorizza di ricevere omnia necessaria come ricompensa del lavoro prestato, ma non pecunia. Il capitolo seguente entra nei particolari, ingiungendo di non portare con sé pecunia o denarii, di non accettarli e di non farli accettare per nessuna ragione, se non per la necessità manifesta dei fratelli malati. Il precetto è giustificato con l'affermazione che non si deve ritenere che il denaro sia più utile delle pietre, mentre l'opinione contraria è risultato della suggestione del maligno. L'insistenza sul punto è significativa: la regola giunge ad affermare che il denaro trovato per caso va disprezzato come la polvere. Il frate che contravvenga a questa norma è da considerare falso, ladro, bandito e viene implicitamente paragonato a Giuda. Anche chiedendo l'elemosina, i frati non devono accettarla sotto forma di denaro. Neppure devono richiedere o far chiedere denaro per le istituzioni assistenziali (ospizi, lebbrosari) presso i quali prestavano servizio. Sono sì autorizzati a chiedere l'elemosina per i lebbrosi, ma a condizione che si "guardino molto dal denaro". Anche se sono più sintetiche, le formulazioni della regola successiva, quella approvata dal Pontefice Onorio iii nel 1223, escludono non solo il denaro come forma di compenso per il lavoro prestato, ma proibiscono anche in modo assoluto l'uso del denaro, lasciando ai ministri e custodi di occuparsi - per mezzo di amici spirituali esterni all'ordine - dei confratelli malati. Si nota che coloro con funzioni direttive nell'ordine sono caricati di maggiori responsabilità rispetto alla questione dell'uso della moneta, ma è confermata comunque la netta esclusione del denaro dai beni ammessi per il sostentamento di chi sceglie la povertà dei minori.
Come ha già ben evidenziato Giacomo Todeschini nel suo libro Ricchezza francescana, questo "rifiuto del danaro" è riconfermato e perfino amplificato nelle prime vite di Francesco, riconosciuto santo nel 1228, ad appena due anni dalla morte. Nelle vite di Francesco alle monete vengono insistentemente accostati non solo la polvere e le pietre, come nella Regula non bullata, ma anche lo sterco (in particolare d'asino), le mosche (per la loro inutilità), e infine il serpente velenoso e il diavolo, per il carattere insidioso dei pericoli che nasconde. 171q04b1
Questa diffidenza francescana nei confronti del denaro ha toni e tratti veramente peculiari, in particolare se la si confronta con quanto troviamo nelle fonti coeve relative all'altro grande ordine mendicante, i frati domenicani. Pur assumendo in pieno il consiglio evangelico secondo il quale i predicatori non devono portare con sé denaro durante le loro missioni, i frati di Domenico non mostrano una paragonabile sensibilità negativa nei confronti del denaro. Domenico di Caleruega stesso, descritto come modello di austerità e di povertà, maneggia il denaro, e le costituzioni dell'ordine emanate ancora negli anni Trenta raccomandano che priori e provinciali gestiscano il denaro di comune accordo con i confratelli.
Non senza una punta di polemica, il grande erudito e storico domenicano Simon Tugwell ha osservato che Domenico non ha mai provato "imbarazzo" nei confronti del denaro, lasciando intendere che altri, nello specifico Francesco e i suoi seguaci, avrebbero provato appunto una "difficoltà di rapporto" con esso. In effetti, lo sbarramento normativo eretto da Francesco e dai suoi confratelli contro l'uso del denaro è stato spesso ricondotto a categorie psicologiche. Si è parlato di "ossessione", e anche di una sorta di feticismo, alla rovescia s'intende, nei confronti della fisicità delle monete. Il mercante "pentito", "convertito" quale era Francesco - dopo la scelta della povertà radicale - avrebbe come percepito che dallo strumento principe dell'attività che aveva abbandonato proveniva una sorta di fluido malefico, al punto che anche il contatto fisico con la moneta poteva risultare pericoloso. Intervenendo recentemente in un convegno di Assisi "L'economia dei conventi dei Frati Minori e dei Predicatori fino alla metà del Trecento", Horst Enzensberger ha parlato di una resistenza "anarcoide" al denaro, che si caratterizza per l'inadeguatezza ai suoi tempi e per l'enorme ingenuità. I termini adottati dal professore tedesco sono duri, ma non pochi si chiedono se non abbia ragione Enzensberger nel considerare la proibizione dell'uso del denaro come una sorta di fissazione nevrotica di Francesco destinata, per sua stessa natura, a essere disattesa nella concreta prassi dell'ordine dei minori.
In verità, gli studiosi più attenti hanno saputo dare risposte più convincenti e interessanti. David Flood, sottolineando l'aspetto sociale, ha suggerito che i primi francescani hanno visto nel denaro il segno e insieme lo strumento del potere al quale i minori vogliono rinunciare, per condividere lo stato di coloro che sono emarginati dall'economia. Nel 2009, questa idea è stata ripresa anche da Michael Cusato in occasione di un incontro di studio dei francescani statunitensi, di recentissima pubblicazione con il titolo Poverty and Prosperity: per Cusato il rifiuto di maneggiare monete è il gesto simbolico di rinuncia agli ingiusti privilegi sociali di cui Francesco aveva goduto prima della sua conversione. David Flood ha sottolineato anche che escludendo il denaro dai beni che si possono ottenere come elemosina, i francescani volevano sfuggire al rischio di convertire ciò che veniva offerto per le loro necessità in acquisizione di beni non necessari. A sua volta, Giovanni Miccoli ha interpretato questa "drastica esclusione" del denaro come consapevolezza del rischio di accumulazione da parte dei frati, un rischio reso particolarmente forte dal momento di espansione dell'economia monetaria.
Un'ulteriore chiave interpretativa è stata offerta da Giacomo Todeschini, che ha felicemente intitolato "La scoperta dell'altrove" uno dei capitoli del suo libro, decifrando il divieto del denaro da parte dei francescani come una mossa fondamentale per poter attingere a una sfera di valore del "beni del mondo" diversa, altra da quella della economia monetaria, in breve una dimensione esistenziale in cui il denaro non misura le cose. Quella scelta consente ai Francescani non solo di dichiarare, ma di fare esperienza del fatto che le ricchezze di questo mondo hanno un altro valore, misterioso, "non riducibile a un valore di scambio facilmente monetizzabile". Quindi, per Todeschini la pratica della povertà che non è solo un esercizio ascetico, ma un modo alternativo di "farsi incontro" ai beni di questo mondo. Da questo punto di vista, la rinuncia al denaro, invece che un ulteriore elemento "rigoristico" che renda, perdonate il gioco di parole, "più povera" la tradizionale povertà monastica, diventa un modo per arrivare a "toccare con mano" quella dimensione della vita umana per la quale i beni (oggi diremmo le risorse) hanno un valore che non è riducibile al loro valore di scambio. Il valore di scambio, quello per il quale tutto è equiparabile per mezzo del denaro, non ha l'ultima parola: il pane con cui si sfamano i poveri non può essere posto sulla stessa scala della bardatura di lusso di un cavallo o - per fare un parallelo odierno - una bottiglia d'acqua non può essere considerata solo la centomillesima parte di Suv di media qualità.
Insomma, la radicale rinuncia francescana al denaro non è una romantica fuga dalla realtà, ma il modo per raggiungere una realtà più profonda più vera, l'unica tra l'altro, che consente di giudicare in modo competente del modo di usare dei beni di questo mondo. Proprio per questa ragione, ha scritto più di una volta Giacomo Todeschini, i francescani, che con la loro scelta di povertà scoprono "un altrove" rispetto all'economia monetaria, diventano consiglieri credibili per chi, come i laici cristiani, continua a vivere invece nel mercato. Scegliere la povertà come libertà dal denaro, oltre che un gesto penitenziale, diventa un modo per acquisire un punto di vista più chiaro rispetto a ciò che veramente vale tra i beni degli uomini.
(©L'Osservatore Romano - 28 luglio 2010)
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