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Se ne sta in piedi sul tetto di una casa nel paese di Guvecce, in Turchia. Fa la sentinella al suo paese, che gli sta di fronte: la Siria è a poche centinaia di metri di distanza. Il paesaggio alterna il verde gonfio dei prati al giallo oro del grano, con qualche macchia argentata: gli ulivi accarezzati dal sole. La natura dà spettacolo, come sempre indifferente o rassegnata di fronte alle tragedie causate dagli esseri umani. L’uomo, che chiameremo F. perché ci ha chiesto di non fare il suo nome, ha 36 anni. Ne dimostra molti di più: si sono messi a correre nelle scorse settimane gli anni, mi racconta, da quando nel suo villaggio nel nord della Siria è cambiato tutto. F. è fuggito, con sua moglie ed è giunto in Turchia attraverso il confine ufficiale, non attraversando boschi e praterie. Sono le 8.30 di mattina quando ci conosciamo per la prima volta. Ha l’aria irrequieta di qualcuno che ne sta pensando una. Non riesce a tenermela nascosta a lungo. Mi propone di scendere, verso il confine, e di provare ad attraversarlo, così potrò vedere con i miei occhi famiglie intere di siriani scappati di casa, con la paura che gli sta dietro come un mastino. Quindici minuti ancora e partiamo. Decidiamo di non forzare la sorte, di fermarci se qualcuno ci chiede di farlo, polizia o esercito. Lungo il cammino, che avanza fra una boscaglia bassa e densa che, a volte, lascia spazio a chiazze di prato, c’è un indaffarato viavai. Alcuni ragazzi sono stati in Turchia, di mattina presto, e ora tornano in Siria portando cartoni pieni di succo di frutta, di cibo in scatola e sacchetti con dentro grandi pagnotte. E’ l’assistenza per i profughi rimasti dalla parte siriana del confine. Questi ragazzi parlano poco: hanno fretta di concludere la loro missione evitando di essere scoperti dai soldati turchi. Il confine è controllato, molto più di quanto non lo fosse prima. Il sentiero che stiamo percorrendo è stato aperto dai contrabbandieri: come ogni zona di confine, anche questa, fra Siria e Turchia, è teatro di traffici di ogni tipo.
F. si ferma, senza preavviso. Tende l’orecchio, cerca di guardare oltre il folto di un gruppo di alberi che ci stanno di fronte. Un falso allarme, avanziamo. “Ecco, qui siamo in Siria”, mi spiega F. Il percorso, probabilmente, avanza serpeggiando, passando da una parte all’altra di un confine incerto. Siamo in cammino da oltre mezz’ora quando compaiono i primi siriani: ragazzi e uomini ancora giovani. Alcuni in canottieria, altri a torso nudo. Ci guardano, in silenzio. Stupiti, forse, di vedere che oltre ai giovani con le vettovaglie ci sono altre persone. La sorpresa evapora. I siriani iniziano subito a parlare, a chiederci di seguirli, perché vogliono mostrarci dove e come vivono. C’è in loro il bisogno di raccontare, di spiegare, di arrabbiarsi, di urlare, anche di ripetere slogan già sentiti da altri, che condividono la stessa sorte: il ritornello della paura e dell’impotenza. “Ehi!” La voce è forte e non lascia dubbi: guai in vista. Più che un richiamo è un ordine. Un ordine che segue subito dopo: “Venite qui, subito, non vi allontanate!” Soldati turchi. Non si scherza e lo avevamo deciso: se succede, non si forza. Okay, eccoci, nessun problema, giornalisti. Una parola che, agli orecchi di ogni militare al mondo, non suona mai come un biglietto da visita particolarmente rispettabile. F. ha la faccia trasformata dalla paura: in un soffio mi sussurra che lui in Siria non ci può tornare, perché… e si passa rapidamente la mano di traverso sulla gola. Stai tranquillo, risolviamo tutto. E’, più che una sicurezza, un desiderio espresso come portafortuna. I militari sono calmi e gentili con noi, lo resteranno per tutte le sei ore che dovremo trascorrere con loro. Siamo in arresto. Veniamo caricati su un autocarro. A bordo, lungo due panchine in legno disposte per il lungo del pianale di carico, ci sono alcuni ragazzini: nelle mani stringono ancora i sacchetti e le scatole che stavano portando in Siria. L’autocarro si mette in moto e percorre la striscia di confine che separa la Turchia dalla Siria. E’ un viaggio che altrimenti non avremmo mai potuto fare: alza il sipario su una scena che si ripete, per centinaia di metri. Famiglie intere, una famiglia dopo l’altra, accampate a ridosso del filo spinato che l’esercito turco ha sistemato recentemente. Donne e bambini. Giovani incinte e uomini con le sigarette appese alla bocca. Ci guardano, come se la sorte, per una volta, si fosse capovolta: sono loro quelli messi meglio, per l’istante che contiene la nostra sull’autocarro. E’ una strana sensazione, anche per chi è a bordo del mezzo militare. Veniamo consegnati, insieme ai ragazzi siriani e a F., ai militari di una caserma, lungo il confine. Ho trascorso le sei ore di fermo a parlare con F., la mia guida. E’ stata l’occasione per ascoltarlo, ma anche per guardarlo da vicino, guardarlo negli occhi mentre mi proponeva il suo racconto, per chiedergli e richiedergli che cosa ha visto, in prima persona, senza filtri, e che cosa invece ha soltanto sentito, per chiedergli di provare il suo racconto, di aprire uno squarcio di verità su quanto sta accadendo in Siria. Questo è il racconto di F., riassunto a memoria.
Mi chiamo F., ho 36 anni, nel mio paese faccio il taxista, anzi facevo il taxista, perché adesso nemmeno ci penso a tornare a casa. Mia moglie l’ho portata con me, sono entrato in Turchia da cittadino siriano, con la testa alta, ma con pochi soldi nelle tasche e niente altro. Non so che cosa sia successo alla mia casa, se ci sia ancora, se l’hanno distrutta i bombardamenti dell’esercito che si è aperto la strada verso il mio villaggio a cannonate. Sono ancora giovane ma la paura mi ha messo sulle spalle una pietra troppo pesante. Libertà. Sai quante volte l’ho sognata questa parola? Da quando sono nato non so che cosa sia, non l’ho mai imparata e non l’ho mai vissuta la verità. Zitto, sempre zitto, me ne stavo nel mio taxi e guidavo, vai a destra, vai a sinistra, accelera, frena, ecco, qui, fermati. Incassavo due soldi e ripartivo. Figli non ne ho, perché costano. Improvvisamente sono filtrate anche in Siria le notizie sulla Tunisia e sull’Egitto, ognuno si lasciava girare nella testa queste notizie, che hanno cominciato a diventare idee, speranze e, a poco a poco, anche volontà. All’inizio non ne parlavi con nessuno, perché nemmeno il tuo vicino di casa lo conosci davvero, non ti fidavi di nessuno. Ma quando le voci che qualcosa si muoveva anche in Siria hanno preso corpo, dapprima come gatti randagi, magri e impauriti, e poi con sempre maggiore determinazione, abbiamo cominciato a crederci anche noi. Libertà. E se fosse possibile, davvero? Adesso la stiamo pagando questa stramberia, questa acrobazia del pensiero. La paghiamo con la vita. Ti racconto quello che ho visto, nel mio paese. Il venerdì, giorno della preghiera, era diventato il momento della protesta. Un giorno è arrivato l’esercito e con i megafoni i soldati dicevano di non protestare. Noi non ci siamo fermati, l’esercito in fondo a una strada, noi dall’altra parte. Due muri. Senza preavviso, di punto in bianco, da dietro i soldati sono comparsi altri uomini, i servizi segreti, la sicurezza del regime, e questi hanno aperto il fuoco contro di noi. I soldati no. I soldati le pallottole se le sono anche prese, questo io l’ho visto. Ho visto siriani sparare contro altri siriani, servizi segreti aprire il fuoco contro i militari. I militari sono figli del popolo, gente come noi, loro hanno cominciato a pensare che non è onorevole sparare alla gente. E adesso c’è uno scontro, in Siria, fra esercito, parte dell’esercito perlomeno, e servizi di sicurezza del governo. Questo l’ho visto, con i miei occhi. Se mi chiedi se noi avevamo armi nel mio paese, se abbiamo sparato contro quelli del governo, ti dico di no. Se avessi avuto un Kalashnikov lo avrei usato, mi sarei difeso. Di armi non ne avevamo. Si dice in giro, il governo ha messo in circolazione queste voci, che in Siria sta iniziando una guerra di religione, sunniti contro alawiti e che anche i cristiani sono presi in mezzo. Io questo non l’ho visto e non lo credo. Nel mio paese abbiamo continuato a vivere insieme, addirittura cristiani e musulmani dentro le stesse case. E gli alawiti, nemmeno con loro abbiamo un conto in sospeso. Siamo contro il regime. Il regime non lo vogliamo più. La pace, se è possibile mi chiedi? Se il presidente Bashar al Assad dicesse, va bene, pace con tutti, forze armate e sicurezza nelle caserme, ricominciamo da capo? Niente, non c’è un “da capo”, c’è un “a capo”. Punto e si ricomincia, ma senza regime, senza presidente. E’ andato oltre la linea rossa. Ogni famiglia in Siria ha ormai una vittima causata dal regime, come è possibile chiedere a queste persone di perdonare, di chiudere un occhio, entrambi gli occhi, di ricominciare come se nulla fosse stato? E’ impossibile. Io spero soltanto che non mi rimandino in Siria, altrimenti è finita per me. Il futuro lo posso immaginare, ma non qui. Voglio andare altrove. La libertà significa anche questo, vero? O ci sono dizionari diversi utilizzati per decidere il destino di popoli diversi? Per gli egiziani usi quel dizionario, per i tunisini quell’altro, per i libici quest’altro ancora e per i siriani magari non lo apri nemmeno il dizionario, oppure ne usi uno che quando lo sfogli la parola libertà non figura? Noi questa parola l’abbiamo scritta, la stiamo scrivendo.
F. non è stato rimandato in Siria. Resta in Turchia, per il momento, al sicuro. Credo che, se potesse, sceglierebbe di andarsene, di venire in Europa. In cerca di un lavoro, di un presente vivibile. Me lo chiede, salutandomi: “La Svizzera me lo darebbe un visto?”. Aspetta, gli rispondo. Chi ti garantisce che il dizionario che troveresti, in Europa, contenga davvero la definizione di libertà che stai cercando? Apparso su La Regione, 17 6 2011
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