«Una forza stranissima si insinua/ nelle mie labbra docili e le incurva;/ io ruoto, sento, sul mio desiderio / schiava di un magnetismo che mi ha vinta./ La corsa dopo invaderà il mio corpo/ che la esercita in sé, nel suo tormento,/ per superare ciecamente il solco/ dove tu, assente, non puoi più fiorire./ Ardo di mille musiche diverse,/ ma dove è tempo di un incontro nuovo,/ resiste il “poter essere” di te.» Alda Merini – Lirica, La presenza di Orfeo
Quella che Özpetek racconta nel suo nuovo lavoro “Allacciate le cinture“ è una storia semplice. Elena (Kasia Smutniak) è una donna intelligente, si muove con sicurezza tra le ordinazioni e i tavolini del bar in cui lavora in una Lecce che si affaccia al nuovo millennio con l’avventatezza dei giovani pronti a consumare sere inutili e adorabilmente oziose tra una birra e l’altra.
Elena ha una relazione sicura con un giovane uomo di famiglia benestante (Francesco Scianna), ma entra nella sua vita Antonio (Francesco Arca), il ragazzo di Silvia (Carolina Crescentini) mal sopportato da Fabio (Filippo Scicchitano) l’amico omosessuale del gruppo, tutto sogni e progetti. La storia parte sotto la pioggia, gambe che corrono per sfuggire alla furia dell’acqua. Lentamente procede al ritmo del respiro dei suoi personaggi: tra le discussioni cariche di ironia – in cui Elena e Fabio cercano di spiegarsi come l’amica possa amare Antonio che, oltre ad essere piuttosto irritante nelle sue pose da macho, è pure omofobo, razzista e abbastanza ignorante – si incastrano gli sguardi del patinato metalmeccanico ormai pronto ad innamorarsi di Elena.
Le getta contro sguardi che dovrebbero essere languidi: la sua inespressività è toccante, colpisce la giovane. I due consumano la loro attrazione sulla spiaggia della splendente riserva naturale di Torre Guaceto: sullo sfondo abbaglia una Puglia limpida resa nella sua spontanea generosità da una fotografia pulita e luminosa. È tutto un procedere verso l’apice della tensione a partire dal momento in cui, con un sapiente flashforward, ci troviamo proiettati a tredici anni dall’apertura del nuovo locale di Elena e Fabio.
Ormai la giovane si è trasformata in una donna, è moglie di Antonio con due bambini, proiezione dei genitori: il maschietto introverso e ingenuo, la femminuccia ribelle pare essere più matura di quanto dovrebbe, nelle sue pose da fanciullina lungimirante che tutto comprende, comprese le incrinature nel rapporto tra marito e moglie.
Elena non sembra essere davvero soddisfatta del marito, sempre distratto: non sa leggere e non riesce proprio a tenere la cintura allacciata. È, quello di Antonio, un personaggio che incarna perfettamente lo stereotipo dell’uomo che troppo più spesso è l’oggetto del desiderio femminile nella società dell’apparire, solo apparentemente avvenente e interessante: palestrato, tatuato e macho.
Non sarà un caso che Özpetek abbia scelto uno dei divi del trono per questo ruolo, sembra infatti che Arca non si sia sforzato più di tanto per essere così dannatamente inespressivo. Dannato machismo. Non si comprende perché una donna come Elena possa viverci insieme e farci due figli. Il loro è tutto fuorché un amore immenso, sembra piuttosto trattarsi dell’incontro di due corpi, sembra che il sentimento sia completamente sostituito dal piacere puro e semplice di sentirsi vicini: sembra davvero che l’amore sia solo il contatto di due epidermidi, difficile immaginarsi quali fantasie i due abbiano potuto scambiarsi.
Questo microuniverso semplice, addirittura un po’ scialbo, comincia a disgregarsi quando Elena scopre casualmente di essere gravemente malata: un tumore al seno la logorerà da qui sino alla fine della storia. Intorno a lei si muovono personaggi deliziosi: la zia (una frizzante Elena Sofia Ricci) che incarna tutte quelle donne sempre desiderose di cambiare e sperimentare, difficili da decifrare: non si può mai sapere se dietro il cambiare nome e abitudini alimentari nascondano una profonda difficoltà ad accettarsi e comprendersi o solo una curiosità insaziabile; la madre doppio non precisamente speculare dell’altra, interpretata da una essenziale e spontanea Carla Signoris, una donna forte che ha conosciuto il dolore di perdere un figlio bambino e che proprio per questo desidera ancora di più la guarigione della figlia.
Pregna di una certa genuina meridionalità è la parrucchiera (Luisa Ranieri), ex amante di un Antonio che inizialmente fugge dalla moglie il cui corpo si spegne di giorno in giorno: qui ancora più evidente è l’intenzione del regista di mostrare la finitezza, nel senso della limitatezza, di un uomo che non accetta il dolore e la fatica di un corpo che muore mentre tenta di lottare con tutto il residuo delle proprie forze come fanno Elena ed Egle, la malata terminale (Paola Minaccioni).
Egle sa di dovere morire, ma non riesce a impedirsi di sorridere al ricordo e al desiderio possente che la vita risveglia in lei mentre le sfugge dal corpo. Egle è una donna diversa, soprattutto perché vede in Antonio – che ritorna al fianco di Elena dopo giorni di peregrinazioni e distanze – un machismo invertito che non ha niente a che fare con l’essere uomo, come invece è per lei Fabio: il tabù dell’omosessuale-femminile viene così superato con una risata e uno smorfia della mascella.
Egle è il personaggio con cui Özpetek completa la sua opera meta-teatrale: tutti nella vicenda sembrano sapere perfettamente che ogni gesto ed ogni parola sono la legge di un “deus ex machina” che ha già scritto sul copione tutto ciò che deve essere, niente ha a che fare con la realtà e, nonostante tutti parlino a modo loro della vita, nessuno vive veramente se non in funzione della cinepresa che lo inquadra: nessun personaggio è di fatto veramente approfondito e svelato al pubblico in ogni sua piega, nessun personaggio è davvero totalmente immerso nella “sua” maschera.
Ci sono dei primi piani che inchiodano gli sguardi dei due protagonisti e lasciano lo spazio intorno a loro ovattato e distante, per suggerire un’idea di distensione, come per farci intendere che nella dimensione fisica l’ambiente è solo lì per raccogliere i corpi dei personaggi che si muovono seguendo l’andamento meccanicistico delle loro pulsioni. La malattia di Elena continua a degenerare, la donna scappa dall’ospedale e da Diana (Giulia Michelini), la dottoressa che la cura e cerca di rassicurarla, di fronte alla morte di Egle, che lei, invece, può farcela.
Antonio non la riporterà subito a casa, ma insieme torneranno nel luogo del loro primo incontro tra passato e presente che si intrecciano indissolubilmente a ribadire il legame profondo di tutte le cose che appartengono alla storia individuale, quel filo rosso sottile che non si riesce a spezzare. Difficile dire se si tratti davvero di una storia d’amore. Difficile dire se il sapore agrodolce che rimane alla fine del film, quando tutto si conclude ancora una volta con l’evasione nel ricordo della giovanile passione, sia piacevole o solo terribilmente stucchevole. Certo è che dell’atmosfera e della fitta trama di implicazioni psicologiche de “La finestra di fronte” o di “Mine Vaganti” resta una patina opaca che rende tutto drammaticamente distante.
Written by Irene Gianeselli