Alle origini

Creato il 11 novembre 2014 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Ieri sono andata a vedere Il sale della terra. Era un po’ di tempo che non andavo al cinema, e sono felice di aver ricominciato di qui. Non è un film, ma un documentario, più ricco di narrazione della media dei film, che parla di Sebastião Salgado, uno dei fotografi più celebri del nostro tempo che, armato della sua macchina e di una sensibilità fuori dal comune, ha ritratto mezzo mondo, e la sua sofferenza. Dall’America Latina al Sahel, dalle grandi migrazioni – soprattutto in terra d’Africa – agli incendi spettacolari dei pozzi di petrolio in Kuwait fino ai lavoratori delle immense miniere brasiliane.

Il film è il suo volto, incredibilmente giovane per gli anni che ha, sono le sue parole – percepite nel francese coperto dal doppiaggio – ed è la voce di Wim Wenders, sceneggiatore e regista insieme a Juliano Ribeiro Salgado. E sono foto incredibili che scorrono lentamente, una via l’altra, alternandosi al girato. Ed è di alcune di esse che voglio parlare, perché penso che Salgado lo abbia messo in conto che la morte l’avrebbe incontrata innumerevoli volte, affrontando un determinato tipo di percorso conoscitivo.

Ph. Sebastião Salgado

La prima è l’immagine di un bambino, un bambino piccolissimo, morto da poco e pronto ad affrontare il suo viaggio. Non ricordo se siamo nel Nordeste, in Brasile, ma penso di sì. Il bambino giace nella bara, contornato da fiori. Ha gli occhi aperti, perché gli occhi vengono chiusi solo ai bambini che sono stati battezzati, e che saranno guidati dalla fede. Lui no, questo “privilegio” non lo avrà, e avrà bisogno di entrare nell’altro mondo con gli occhi aperti, per provare a trovare la strada. Ed è terribile immaginare che un essere così piccolo, così bello, debba affrontare anche questa prova difficilissima. Questa immagine fa parte del primo, grande progetto fotografico di Salgado, dedicato al suo continente d’origine, e alla scoperta del volto meno noto dell’America: Other Americas, realizzato fra il 1977 e il 1984. È un mondo fatto di sofferenza, povertà, ma anche di musica, funghi magici, peyote, un mondo dove la morte è sorella, e compagna, della vita di tutti i giorni.

Ph. Sebastião Salgado

La seconda di bambini ne contiene tre. Sono tutti e tre vivi, avvolti in una coperta, ma uno dei tre, quello con gli occhi meno vivaci, più liquidi, morirà di lì a poco. Questa foto è contenuta nel lavoro dedicato alle grandi migrazioni contemporanee. Centinaia di migliaia di persone strappate dalle loro case, dalle proprie radici dalla povertà, da condizioni di vita insostenibili, dalle guerre. Raramente si tratta di migrazioni verso un futuro che dona speranza. Spesso si tratta di viaggi che si concludono nei campi per i rifugiati, o negli slums delle città del Terzo mondo. E di queste migrazioni l’Africa è tristemente la protagonista indiscussa. Un’Africa che Salgado ha imparato a conoscere bene, nel 1984-85 avventurandosi nelle terre siccitose del Sahel e facendo conoscere al mondo il significato della parola FAME, che ancora uccide troppi bambini, donne e uomini, nonostante l’impegno di chi come Medici senza frontiere combatte per sconfiggerla o curarne le conseguenze.

Ph. Sebastião Salgado

E poi in Ruanda dove, documentando gli esodi di massa del nostro tempo, nel 1994 ha assistito al genocidio dei tutsi e anche degli hutu. Perché le vittime furono numerosissime, e da entrambe le parti. Un milione di vite tranciate a colpi di machete. Un qualcosa di fronte a cui vorremmo chiudere gli occhi – come in effetti l’Occidente ha ampiamente fatto – ma che invece Salgado ha documentato, dall’una e dall’altra parte, chiedendosi, tuttora, che ne è stato dei 120.000 profughi utu che non hanno più fatto ritorno alle proprie abitazioni.

Ph. Sebastião Salgado

C’è un momento, molto drammatico e lirico al tempo stesso, in cui il fotografo dichiara che la sua anima si era ammalata. La visione della morte, quando assume certe proporzioni inimmaginabili, è devastante. Nessuno può esservi preparato. C’è una risposta, a tutto questo? Quasi come se stessimo leggendo la Bibbia, Salgado, insieme a sua moglie Lélia Wanick Salgado, che sempre gli è stata a fianco nell’importantissimo lavoro di progettazione (e accudendo al loro figlio), l’ha trovata all’origine, nella Genesi che precede l’Esodo. Il suo progetto riguarda la Terra, e la bellezza. Quella bellezza – ancora tanta, per fortuna – che nonostante tutto rimane lì: nella sua forma primigenia. Intere regioni inesplorate, incontaminate, in to the wild, paesaggi, animali, uomini che continuano a vivere secondo le loro tradizioni e antiche culture. Al freddo, o liberi nella foresta, coi corpi nudi e dipinti di rosso. Sì, dopo l’orrore la ricerca della bellezza è necessaria. Perché la bellezza è la cura.

Il sale della terra parla di morte e parla di vita. Lo fa in modo intenso, toccante, lucido. Andate a vederlo.

di Silvia Ceriani

Sebastião Salgado è nato nel ’44 ad Aimorés, nello stato del Minas Gerais, in Brasile. Attualmente vive a Parigi. Dopo gli studi in economia, iniziò la sua carriera fotografica proprio a Parigi, nel ’73, lavorando per le agenzie Sygma, Gamma, e Magnum Photos fino al ’94, quando insieme a Lélia Wanick Salgado fondò Amazonas images, un’agenzia creata esclusivamente per il suo lavoro. Ha viaggiato in più di 100 paesi per realizzare i propri progetti fotografici: Other Americas (1986), Sahel: l’homme en détresse (1986), Sahel: el fin del camino (1988), Workers (1993), Terra (1997), Migrations and Portraits (2000), Africa (2007) e Genesis.


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