Quando l’ultimo pezzo della sua infanzia se ne va, Zerocalcare scopre cose sulla propria famiglia che non aveva mai neanche lontanamente sospettato. Diviso tra il rassicurante torpore dell’innocenza giovanile e l’incapacità di sfuggire al controllo sempre più opprimente della società, dovrà capire da dove viene veramente, prima di rendersi conto di dove sta andando.
Zerocalcare, attraverso le sue vignette bisettimanali (o quasi), mi ha abituato a uno sguardo che, con le dovute differenze, è simile al mio.
Certo, non sono cresciuta a Rebibbia, certo, non ho avuto problemi di bullismo (non marcato come traspare da lui, almeno) ma le sue paure da trentenne sono le mie, il suo costruire una “realtà” fatta di armadilli e cinghiali è il mio modo di costruire una corazza di difesa (sì, i Cavalieri dello Zodiaco ci hanno rovinato)
Dimentica il mio nome è l’elaborazione di una perdita importante. Un’elaborazione ‘calcariana’, surreale, quasi incredibile, ma molto coerente con quello a cui Zerocalcare ci ha abituato.
Ognuno cerca di sopravvivere ai vuoti come può.
Zerocalcare lo fa così:
Tappare i buchi fa bene. Permette di inquadrare. Avere le risposte placa la mente. […]
Però c’è un’altra parte del corpo a cui le risposte non cambiano nulla. Che se ne frega del cervello.
Dove ci sta quel groviglio brutto di nostalgia. E di rimpianti. E di rimorsi. Di quello che non sei riuscito a dire. Di chi non sei riuscito a capire. Finché eri in tempo.
Grazie, Michele.