Nei miei percorsi di ALLENAMENTO MENTALE, sia con atleti che allenatori, ho riscontrato diversi elementi che “giustificano” la convinzione che giocare in trasferta sia più difficile.
Il primo elemento è la convinzione. Essere convinti di una cosa la trasforma in una verità soggettiva e/o collettiva difficilmente confutabile.
Poi… bè, guarda questo video divertente ed esplicativo!
SEMBRA FACILE!!
Infatti un altro elemento è la statistica, che rinforza questa “verità” (giocare in trasferta è più difficile) che tende inevitabilmente a ripetersi innescando un loop di vicendevole alimentazione.
Un altro fattore è la diffusissima tendenza a spostare l’attenzione fuori dal “core business”, cioè a rivolgere l’attenzione troppo spesso a cose, situazioni, momenti lontani nello spazio e nel tempo e non proprio funzionali all’obiettivo.
Questo limite in un ambiente non familiare come un campo “ostile” viene inevitabilmente enfatizzato.
Un altro ostacolo molto diffuso è la resistenza al cambiamento, quindi la scarsa flessibilità e capacità di adattamento a situazioni variabili.
Questa è una tendenza legata ad un ancestrale istinto di sopravvivenza per cui il “nuovo” può costituire una “minaccia”; un “habitat” diverso risulta più difficoltoso da frequentare.
Esistono tecniche allenamento mentale e coaching che si rivelano molto efficaci nella “ristrutturazione” e nella risoluzione di tali elementi.
Una delle più immediate che normalmente uso per i miei atleti è la costruzione in visualizzazione di un ambiente confortevole da “richiamare” all’occorrenza.
I miei precedenti articoli hanno avuto come oggetto di condivisione molte esperienze legate al mio lavoro di TEAM COACH e testimoniano tante applicazioni di svariate tecniche sia su singoli giocatori che su squadre.
Per ciò che riguarda la tematica in questione, il miglioramento dei risultati in trasferta, un ruolo fondamentale lo ha svolto il leader per eccellenza: l’ALLENATORE.
Il coach, mister, manager, c.t., è istituzionalmente “colui che guida”.
I cavalli scelgono il loro capobranco (generalmente una femmina) in base alla sicurezza dei movimenti. Eleggono leader chi dà la forte sensazione di sapere esattamente dove andare e come farlo.
Una significativa chiave di lettura del grado e del livello di leadership degli allenatori è il loro LINGUAGGIO.
Una delle condizioni per formare le CONVINZIONI/VERITÁ di cui abbiamo accennato all’inizio è l’autorevolezza della fonte.
Nel caso dell’allenatore QUELLO CHE DICE e COME LO DICE, quando è congruente su tutti i livelli di comunicazione, può diventare un “PROGRAMMA” per i suoi giocatori.
Il mio lavoro di consulente di gestione e motivazione del team mi porta ad ascoltare molte interviste ed ho individuato una fortissima correlazione tra i contenuti di alcune dichiarazioni, soprattutto a ridosso delle partite, e l’ATTEGGIAMENTO ed i conseguenti RISULTATI della squadra.
Soprattutto nelle conferenze stampa prima di partite in trasferta e quindi teoricamente più difficili,
è molto frequente sentire allenatori che si dichiarano PRE-OCCUPATI, che usano la parola PAURA, che si LAMENTANO di defezioni, di torti subiti, che ENFATIZZANO punti di forza e qualità degli avversari, che ricordano l’IMBATTIBILITA’ dell’altra squadra quando gioca sul proprio campo, ripetono: NON E’ FACILE, NON SARA’ FACILE…
È anche vero che è probabile (almeno auspicabile) che i toni nello spogliatoio siano ben diversi, ma le dichiarazioni pubbliche hanno sicuramente un grande peso specifico ed un forte impatto all’interno del team.
Parole, contenuti espressi da una fonte autorevole come l’allenatore possono condizionare sensibilmente l’ATTEGGIAMENTO dei giocatori.
L’allenatore può formattare programmi limitanti ed installare nuove credenze legate alla possibilità di successo SEMPRE, anche lontano dalle mura amiche.
Non certo con proclami deliranti o mancando di rispetto agli avversari, anche semplicemente evidenziando la qualità del lavoro svolto in funzione della partita in questione, evitando di parlare di eventuali defezioni, settando obiettivi precisi, ricordando precedenti vittorie in trasferta della sua squadra ed eventualmente sconfitte interne dei prossimi avversari.
Ricorrendo il meno possibile all’uso di espressioni come SPERARE, che implicitamente demandano responsabilità dei risultati a fattori esterni, o PROVARE, CERCARE DI…, che mettono in conto anche la possibilità di non riuscire.
Nemo, il piccolo pesce pagliaccio protagonista del noto cartone, fino a quando aveva il focus sui suoi limiti (era orfano di madre dalla nascita e aveva una pinnetta atrofica) è rimasto rinchiuso in un acquario; quando si è concentrato sui suoi talenti, ha individuato POSSIBILITA’ e ha GUIDATO i suoi amici pesci verso la libertà, verso il SUCCESSO in un contesto ostile.
Appena libero, ormai sicuro, ha consacrato la sua leadership spingendo verso la salvezza un branco di simili intrappolati in una rete e ormai rassegnati a morte sicura perché: “NON SI PUO’ ROMPERE UN ARGANO”.
Chiudo con una storia sintomatica di quanto sia” PROGRAMMANTE” e quindi condizionante l’autorevole voce del “capo”, nel bene e nel male!
“Un insegnante di matematica assegnò un compito a casa ai suoi studenti. Chiese loro di lavorarci, anche se definì il problema IMPOSSIBILE.
Uno studente, durante la presentazione dormiva.
Appena sveglio copiò frettolosamente i numeri dalla lavagna e insieme agli altri uscì al suono della campanella.
Il giorno dopo, fu l’unico a consegnare il problema RISOLTO”.
Di Andrea Cannavacciuolo