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Allenatori italiani all’estero: la grande fuga?

Creato il 20 dicembre 2012 da Olimpiazzurra Federicomilitello @olimpiazzurra

Berlino, 9 luglio 2006, Marcello Lippi guida gli azzurri del calcio al quarto titolo mondiale. Pechino,  22 Agosto 2008, Sandro Damilano stringe a sé Alex Schwazer dopo il traguardo della 50 km di marcia, è oro. Londra, agosto 2012, Stefano Cerioni porta l’Italia del fioretto a vincere (per l’ennesima volta) praticamente tutto quello che c’è da conquistare. Siena, anni 2007-2012, Simone Pianigiani con la Mens Sana vince sei campionati italiani consecutivi di pallacanestro.

Ora facciamo un giochino. Cosa accomuna questi quattro grandi allenatori? La grande competenza? Si indubbiamente. L’indiscussa leadership? Anche. Il talento? Innegabile.

Purtroppo però non solo le doti sopraelencate:  i quattro fuoriclasse della panchina italiani sono solo i capofila di un lunghissimo elenco di cervelli dedicati allo sport che hanno deciso di esportare il proprio know-how all’estero, andando spesso a rinforzare i diretti concorrenti ai posti di vertice dei nostri atleti, nazionali e club.

L’idea di chi vi scrive era di arricchire l’articolo con una lista di tecnici italiani all’estero. No, scoraggiante. Sarebbe stata un impresa omerica. Un vero e proprio elenco dallo spessore di una guida del telefono.  Sono infatti moltissimi gli allenatori che hanno abbandonato il Bel Paese per finire in angoli del mondo tra i più disparati.

C’è chi è andato ad occupare delle eccellenze assolute: viene in mente Capello che fino a poco fà era stato chiamato a spiegare il gioco del football da chi quel gioco l’ha inventato; o Ettore Messina chiamato ad entrare nello staff della più grande ed efficente macchina dello sport mondiale, i Los Angeles Lakers, dove per altro attualmente a scrivere gli schemi sulla lavagnetta c’è Mike D’Antoni che dell’Italia porta molto, non solo il cognome, ed ha anche vestito la maglia azzurra; oppure Ezio Gamba chiamato da Putin in persona a gestire e portare ai successi lo sport preferito e praticato dallo Zar della Russia moderna, il judo.

Oltre agli esempi più ecclatanti c’è n’è veramente per tutti i gusti e in tutti gli sport: nel calcio tra i tanti, Zaccheroni ha guidato il Giappone alla conquista della Coppa d’Asia; il Trap, già pratico di panchine estere (come dimenticare “Struuunz !” ), ha riportato l’Irlanda su un palcoscenico importante dopo 10 anni di sofferenze; Spalletti, Mancini e Ancelotti occupano panchine prestigiosissime nel panorama europeo. Nel basket Messina e Pianigiani allenano forse i due club più potenti d’europa e Scariolo, prima di approdare a Milano, ha avuto l’onore di tenere il volante del Dream Team europeo chiamato Spagna. Nel volley la lista è lunghissima, citiamo solo i grandi successi ottenuti da Nano Anastasi alla guida anch’egli degli iberici ed ora impegnato nel favorire il boom della pallavolo polacca. Della scherma Olimpiazzurra ne ha già approfonditamente parlato, ma il problema è talmente serio che gli atleti hanno scritto una petizione scongiurante per trattenere i maestri, la medaglia d’oro di londra si era addirittura offerta di cantare e ballare per pagare lo stipendio a Cerioni, qualsiasi cosa pur di non lasciare scappare i loro preziosi punti di riferimento. Tina Maze, la probabile futura padrona della coppa di cristallo nello sci femminile è guidata dal bergamasco Livio Magoni.  Andrea Di Nino è uno dei fautori delle medaglie olimpiche russe di Londra nel nuoto.  E perfino gli scozzesi del rugby  hanno chiamato un italiano, Massimo Cutitta, a spiegargli un po’ meglio come si fa una mischia. E “La lista”, come detto, potrebbe continuare per pagine e pagine.

Se da un lato dovremmo essere orgogliosi di esportare il nostro made in Italy anche a livello sportivo, la domanda che ci facciamo è : come incide questo vero e proprio esodo sulla crescita dello sport italiano? Quali sono i vantaggi e i pericoli?

 

La nascita di un campione è un processo complesso. E’ come far crescere una pianta delicata: serve innanzitutto il terreno, che va reso fertile con la mano sapiente ed amorevole del contadino, è un compito lungo, che richiede pazienza, sensibilità, grande competenza e l’amore per il proprio lavoro. Una volta nata la pianta bisogna farla crescere, potare se necessario i rami dannosi, saperne cogliere i frutti al momento giusto ed infine far sì che i semi della pianta buona ne generino altre di qualità. Qualità, proprio questa è la parola chiave. Qualità e non quantità: se bastassero i grandi numeri di praticanti India, Cina, Pakistan e Indonesia dominerebbero tutte le discipline, ma così non è. Vi sono invece piccoli Paesi che riescono ad eccellere da anni in sport molto importanti: un esempio su tutti gli All Blacks neozelandesi nel rugby, ma anche la piccola Lituania nel basket; Paesi  di poco più di 3 milioni di abitanti che hanno costruito attorno ai loro sport/religione una tradizione che genera tecnici capaci che a loro volta generano atleti di qualità. Oppure piccoli centri vere è proprie fucine di campioni che sfornano medaglie con un ritmo produttivo statisticamente imbarazzante, per tornare alla scherma e a Cerioni, Jesi ne è forse l’esempio più significativo.

Ogni volta che un allenatore di competente si accasa all’estero c’è quindi un contadino sapiente in meno a coltivare l’orto dello sport italiano. Un tecnico capace che va invece a rafforzare le nazioni concorrenti. Va detto che se il flusso fosse equilibrato ci sarebbero anche indubbi  vantaggi a far partire qualche allenatore: l’esperienza di lavoro all’estero arricchisce il bagaglio tecnico e personale, ti fa mettere in gioco, ti cambia alcune prospettive. Tutto ciò dovrebbe però essere delicatamente gestito, bisognerebbe saper riportare in patria le competenze acquisite, inoltre il gap dovrebbe essere colmato da qualche ottimo allenatore straniero che invece viene da noi.

Quello che sta accadendo è però qualcosa di diverso: quasi un vero e proprio fuggi fuggi generale delle menti migliori del nostro sport. I contadini amorevoli stanno abbandonando l’orto in massa, magari sradicando anche qualche pianta fruttifera e senza sempre lasciare in mano il lavoro a mani altrettanto affidabili.

Sono quindi questi signori da considerare degli ingrati? Dei  traditori della patria? Addirittura dei mercenari? Assolutamente no. E’ il sistema sportivo italiano che al contrario dovrebbe creare un retroterra che garantisca ai nostri tecnici di avere quantomeno la possibilità, oltre al desiderio, di vivere dignitosamente di sport in Italia, senza dover per forza rinunciare al riconoscimento economico che giustamente corrisponde al lavoro svolto e alle competenze acquisite.

E’ vero c’è la crisi, l’Italia ha già rinunciato alla candidatura olimpica in nome del risanamento. Tuttavia, nonostante tutto, ci dichiariamo una delle 10 economie più forti al mondo: veramente non possiamo permetterci di investire qualcosa sul futuro del nostro sport? Sono recentissime le sagge dichiarazioni di Berruto che aprivano gli occhi su come ogni euro speso nel sistema sportivo ne faccia risparmiare tre al sistema sanitario. Ogni euro ben speso aggiungo io, e sottolineo il ben, speso nella formazione, nella costruzione di impianti, nel sostenere le eccellenze e non magari in stadi lasciati a metà, in stipendi faraonici a burocrati pigri o ancor peggio intascato da personaggi equivoci sulla pelle di chi fa sport.

Lo sport poi non porta solo salute, ma aiuta ad unire come null’altro, ti insegna la lealtà, la tenacia, il saper mettersi a servizio degli altri, ti fa conoscere te stesso, ti aiuta a diventare un uomo migliore nella società. Poi non sempre accade, ma questa è un’altra storia…

In molte nazioni, anche molto meno “sviluppate”, la figura dell’allenatore è giustamente paragonata a quella di un insegnante e gli viene riconosciuto uno stipendio dignitoso fin dal lavoro con i ragazzini; in Italia, invece, di solito il lavoro coi più piccoli, che è forse il più importante, è affidato ad ex-atleti spesso, non sempre, poco preparati dal punto di vista pedagogico, a cui non viene né richiesta alcuna qualifica né viene riconosciuto uno stipendio, al massimo un piccolo rimborso spese. I piccoli club si vivono  quasi sempre quindi sull’entusiasmo di  volontari, è ovvio come questo non sempre combaci con la professionalità.

Possiamo quindi continuare sulla strada della svendita dei nostri migliori talenti, abbandonare i nostri contadini più amorevoli e fare appassire la pianta del futuro del nostro sport, del domani dei nostri ragazzi. Oppure decidere di investire seriamente sul nostro futuro. Passiamo la palla ai politici, alle istituzioni, alle federazioni, al CONI, agli sponsor privati, ad ogni mamma e papà che sceglie di far fare sport al proprio figlio, ad ogni cittadino… verrà ricevuta?

OA | danilo.patella

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