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Allergia alimentare: cos’è e come individuarla nel tuo bambino

Creato il 28 settembre 2014 da Antonioriccipv @antonioricci

Allergia alimentare: cos’è come individuarla nel tuo bambino è tratto da una delle schede che abbiamo presentato durante notte dei ricercatori come Pediatria, puoi scaricare la scheda qui.

Allergia alimentare: cos’è come individuarla nel tuo bambino

Cos’è l’allergia alimentare?

L’allergia alimentare è una risposta anomala del sistema immunitario, scatenata dal contatto con un cibo che comunemente viene assunto senza problemi dalla maggioranza degli individui. Gli allergeni alimentari possono provocare reazioni non solo per ingestione, ma anche per contatto o inalazione.

Quali sintomi può causare l’allergia alimentare?

I sintomi dell’allergia alimentare includono:

  • sintomi cutanei (orticaria, angioedema, eritema, prurito, eczema)
  • sintomi gastrointestinali (prurito e bruciore orofaringeo, sindrome orale allergica, vomito, dolori addominali)
  • sintomi respiratori (tosse persistente, raucedine, fischio, stridore, distress respiratorio)
  • disturbi del sistema circolatorio (pallore e flaccidità nei lattanti e nei bambini piccoli, ipotensione, collasso)
  • il rifiuto dell’alimento nei bambini piccoli

Quanto tempo intercorre dall’assunzione dell’alimento e la comparsa dei sintomi?

La manifestazione clinica può manifestarsi in tempi brevi, ovvero da pochi minuti a un’ora dall’assunzione dell’alimento nelle forme IgE mediate, sino a diverse ore dopo nelle forme cellulo-mediate e miste, IgE e cellulo-mediate.

Quali cibi possono causare allergia alimentare?

Potenzialmente qualunque alimento è in grado di indurre allergia, infatti sono stati riportati più di 170 alimenti come causa di reazioni allergiche ma solo una minoranza di questi è responsabile della maggior parte delle reazioni. Tra gli altri alimenti che presentano maggiori probabilità di essere associati alle reazioni allergiche vi sono latte vaccino, uova, frutta, legumi (compresi i germogli di soia), crostacei (granchi, gamberi di fiume e di mare, aragoste), pesce, ortaggi, semi di sesamo, semi di girasole, semi di cotone, semi di papavero e semi di senape. Il potenziale allergenico di alcuni allergeni alimentari può essere eliminato (anche se non sempre) mediante la cottura o la lavorazione industriale, attraverso le quali le proteine vengono denaturate. Le tecniche più recenti, come il trattamento ad alta pressione, la fermentazione e il trattamento con enzimi, possono contribuire a ridurre l’allergenicità di alcune proteine alimentari.

L’allergia alimentare interessa circa il 6% dei bambini nei primi anni di vita e tende a risolversi spontaneamente nella maggior parte di essi verso i 3 anni. In Italia gli alimenti maggiormente interessati da questo tipo di allergia sono il latte vaccino e l’uovo, soprattutto l’albume. Si stima che l’allergia al latte vaccino interessi circa il 2,5% dei bambini nel primo anno di vita mentre quella all’uovo circa l’1,3%. Dopo i 3 anni, solo il 15-20% di questi bambini e’ ancora allergico e superati i 6 anni, più passa il tempo minori sono le chance di spontanea acquisizione della tolleranza. L’allergia IgE mediata ad altri alimenti, quali ad esempio il pesce o la frutta secca, tende a persistere più a lungo e l’acquisizione spontanea della tolleranza si verifica in un numero inferiore di casi.

Come si fa a fare diagnosi?

Mediante la raccolta anamnestica, un accurato esame obiettivo e, nelle forme IgE mediate, mediante accertamenti specifichi, tra cui prick test cutanei (che consistono nell’applicazione sull’avambraccio di diversi estratti ai fini di verificare, dopo una piccola puntura della cute, l’eventuale comparsa di una reazione locale) con estratti di alimenti o con alimenti freschi (prick by prick) e il dosaggio ematico di IgE specifiche nei confronti dell’alimento. E’ molto importante sottolineare per entrambi questi test che il riscontro di una positività in assenza di sintomi legati al contatto con quel determinato alimento, non è sufficiente a diagnosticare un’allergia alimentare ma solo una sensibilizzazione e non indica la necessità di una dieta di eliminazione dell’alimento in questione, che anzi potrebbe essere controproducente.

Per quanto riguarda le allergie alimentari non IgE mediate o miste IgE e non IgE-mediate, la situazione è ancora più complessa: in questi casi i test di laboratorio non possono essere di aiuto per il medico e la diagnosi si basa sulla prova di eliminazione/reintroduzione dell’alimento sospetto nella dieta. Qualunque sia la modalità di esecuzione, un test di provocazione alimentare (TPO) deve essere eseguito in un ambiente protetto con una supervisione medica ed in presenza di attrezzature appropriate per la gestione di emergenza delle reazioni allergiche.

Cos’è la reattività crociata?

La presenza di allergia verso un alimento può implicare una reazione allergica contro altri alimenti della stessa famiglia, seppur raramente. Per esempio meno del 5% dei bambini allergici all’uovo reagisce clinicamente alla carne di pollo e solo il 10% circa degli allergici al latte vaccino non può assumere carne di manzo o vitello. Non è quindi corretto estendere la dieta di eliminazione ad altri possibili alimenti, in assenza di un effettivo riscontro clinico di allergia anche verso di essi. Il fenomeno della reattività crociata comunque esiste ed è dato dal fatto che la sensibilizzazione a un certo allergene ambientale o alimentare può comportare il riconoscimento di componenti in altri allergeni con cui condivide una simile struttura.

Il più tipico tra questi fenomeni riguarda la cross-reattività tra alcuni pollini ed alcuni alimenti vegetali: ad esempio soggetti allergici al polline delle betullacee possano presentare sintomi allergici soprattutto a carico della bocca e del faringe in seguito all’ingestione di mela, pesca, ciliegie, albicocche. Questo fenomeno prende il nome di sindrome orale allergica.

Un altro esempio e’ quello del lattice, con cui alcuni bambini possono venire in contatto a seguito di procedure che richiedono l’uso di guanti, che crossreagisce con numerosi frutti quali castagna, melone, fico, uva, ananas, banana e kiwi. Si spiega così perché talvolta alcuni disturbi possono protrarsi nel tempo o viceversa comparire anche in assenza di un’esposizione diretta alla fonte nota di un allergene.

E  i test complementari?

Negli ultimi anni, parallelamente all’aumento di tutte le malattie allergiche nel mondo occidentale, si e’ assistito ad un sempre più frequente ricorso, sia da parte dei medici che da parte dei pazienti, alle metodiche diagnostiche cosiddette “alternative” o “complementari”. I sostenitori di tale approccio ritengono che esista una vastissima gamma di segni e sintomi attribuibili all’ingestione di certi alimenti, ma non inquadrabili nelle forme di allergia classica immediata e non diagnosticabili con i test cutanei o il dosaggio delle IgE specifiche. I sintomi che appartengono ai questi così detti quadridi “intolleranza alimentare” deriverebbero per lo più da un’azione nociva causata dall’accumulo nel tempo dei cibi offendenti e per questo spesso non sarebbero facilmente ricollegabili all’alimento che li determina. Quindi la correlazione fra alimento sospetto e disturbo non e’ così evidente come nelle allergie, ma e’ subdola e difficilmente identificabile.

Le intolleranze alimentari comprendono i disturbi più vari come la cefalea, la stanchezza-affaticabilità, l’aumento ponderale o l’incapacità di perdere peso anche seguendo le diete più drastiche, disturbi intestinali di varia natura (diarrea, stipsi, acidità gastrica, gonfiore addominale, flatulenza), sintomi cutanei (prurito, secchezza della pelle, foruncoli). Inoltre i meccanismi patogenetici che dovrebbero stare alla base di questi disturbi, non sono noti, diversamente da quanto accade dalle allergie propriamente dette, di cui ben si conosce l’azione dei principali “attori”, ovvero le IgE specifiche, i linfociti e le citochine coinvolte.

L’impossibilità di definire i meccanismi responsabili delle intolleranze alimentari porta come conseguenza l’assenza di un test diagnostico specifico e al contrario apre la strada all’introduzione di numerose indagini, spesso costose e assolutamente prive di basi scientifiche.

Tra esse ricordiamo ad es. il test kinesiologico, basato su una presunta riduzione della forza muscolare indotta dall’allergia, l’analisi del capello e i test elettrodermici, come il Vega, basati sul presupposto, mai dimostrato, di variazioni della corrente elettrica cutanea in seguito al contatto con alimenti non tollerati, ma anche test apparentemente più “tecnici” come il test citotossico, in cui dopo esecuzione di un prelievo di sangue, vengono isolati i linfociti, messi a contatto con estratti di alimenti e ne viene valutata la capacità proliferativa, come misura della sensibilità a quello specifico alimento.

Ancora una volta va sottolineato che non ci sono studi scientifici a supporto del valore diagnostico di queste indagini, e al contrario diversi studi ne hanno dimostrato la assoluta inattendibilità.

Cos’è quindi l’intolleranza alimentare?

L’intolleranza può provocare sintomi simili all’allergia (tra cui nausea, diarrea e crampi allo stomaco), ma la reazione non coinvolge nello stesso modo il sistema immunitario. L’intolleranza alimentare si manifesta quando il corpo non riesce a digerire correttamente un alimento o un componente alimentare. Mentre i soggetti veramente allergici devono in genere eliminare del tutto il cibo incriminato, le persone che hanno un’intolleranza possono spesso sopportare piccole quantità dell’alimento o del componente in questione senza sviluppare sintomi. Fanno eccezione gli individui sensibili al glutine e al solfito. Per l’intolleranza al lattosio esiste un test specifico per fare diagnosi, ovvero il Breath Test al lattosio, che misura la quantità di idrogeno che viene espirata dal soggetto prima e dopo la somministrazione di lattosio permettendo quindi di evidenziare la carenza di lattasi responsabile dell’intolleranza.



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