L'allevamento intensivo è tra le prime cause del riscaldamento globale
Nell’ultimo numero abbiamo scritto dell’enorme quantità d’animali allevati sulla terra e dei viaggi estenuanti che subiscono per essere trasportati e macellati a distanza di migliaia di km: 24 miliardi e 300 milioni sono allevati obbligatoriamente in maniera intensiva altrimenti non ci sarebbe abbastanza spazio per tutti.
L’allevamento intensivo è tra le maggiori cause d’aumento della temperatura terrestre (global warming). In un interessantissimo libro bianco redatto dalla Lega Anti Vivisezione (LAV) “Cambiamento climatico e allevamenti intensivi” si legge che dagli ultimi 50 anni la temperatura terrestre ha iniziato ad aumentare fino a 1°C e gli scienziati sono d’accordo nel sostenere che ciò è stato provocato da attività umane.
Studi condotti anche dalla FAO (Food and Agricolture Organization) hanno consentito di stabilire che oltre il 51% dei gas serra, denominati Green House Gases (GHG), soprattutto metano, anidride carbonica e protossido d’azoto sono causa del riscaldamento globale.
Il loro meccanismo d’azione consiste nell’intrappolare il calore nell’atmosfera. Gli effetti sono: l’aumentata piovosità, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello del mare con progressiva scomparsa delle coste, straripamenti e violente inondazioni, la desertificazione di vaste aree dell’Africa, riduzione dello strato d’ozono, acidificazione degli oceani con riduzione del pH ed effetto sull’ecosistema.
Le ricadute negative di questi cambiamenti si fanno sentire sull’agricoltura per qualità inferiore delle produzioni e sulle specie animali e vegetali che vanno incontro ad estinzione, sulla diffusione di malattie.
C’è una stretta connessione tra l’aumento d’allevamenti intensivi e produzione di gas serra: infatti, per produrre carne e latte in eccesso si emettono in atmosfera GHG.
La stessa FAO, nel 2006, pubblica un dossier intitolato come il nostro articolo “Livestock’s long shadow” (la lunga ombra degli allevamenti intensivi) in cui si afferma che, in base ai calcoli effettuati, il 51% d’anidride carbonica, metano e protossido d’azoto è emesso dagli allevamenti contro il 14% determinato da attività di trasporto via terra, acqua e mare.
È una vera emergenza e tutti son d’accordo nel prendere l’unico provvedimento possibile: ridurre al minimo la presenza degli allevamenti intensivi. Com’è possibile che gli allevamenti siano la causa di ciò? Una percentuale di questi gas, es. CO2 (anidride carbonica) è dovuta alla respirazione degli animali; come sappiamo, le piante hanno la capacità di captare anidride carbonica e trasformarla in ossigeno attraverso la fotosintesi clorofilliana, ma sono state tagliati centinaia di migliaia d’ettari di foreste, riducendo pericolosamente un elemento difensivo verso la CO2.
Il metano è prodotto dai processi digestivi del rumine di bovini, ovini e caprini e dall’evaporazione dei gas contenuti nel letame. Il monossido d’azoto, che ha il più alto potere riscaldante tra i tre gas, proviene dai fertilizzanti chimici usati in agricoltura intensiva e dal letame degli animali che, anziché di essere usato al posto di quelli, è lasciato inutilizzato ad evaporare nell’atmosfera.
La deforestazione selvaggia, attuata specialmente in Amazzonia è stata in gran parte dovuta alla necessità di trovar posto al sempre crescente numero d’animali allevati e a coltivazioni intensive.
Lo stesso scempio si compì in America durante il periodo della conquista del West con la decimazione dei bisonti, fino al limite dell’estinzione. Una buona parte delle foreste dell’Amazzonia è stata tagliata per far posto ad agricoltura intensiva di soia, che serve poi per…alimentare i bovini.
Un terzo delle coltivazioni mondiali è utilizzato per produrre cereali e foraggi per animali e un 20% dei terreni mondiali è desertificato come conseguenza dell’eccessivo sfruttamento.
LA SOLUZIONE: per la FAO le emissioni di gas serra devono essere dimezzate al più presto e bisogna ridurre drasticamente il numero degli allevamenti intensivi e il consumo di prodotti d’origine animale.
Se ogni Paese riducesse appena del 10% i consumi di carne, ciò equivarrebbe per ogni italiano a 8 kg di carne in meno all’anno, ovvero 150 g a settimana, sostituendo la porzione di carne con un piatto di legumi.
Sostituire, quindi, un piatto di proteine animali con proteine vegetali. In parole povere un piatto ricco di proteine vegetali riduce dalle 10 alle 30 volte l’emissione di gas serra rispetto a quelle animali.
Questo semplicissimo cambiamento d’abitudini alimentari ha effetti notevoli sulla salute: per esempio, le proteine vegetali non contengono colesterolo e grassi saturi, deleteri per l’organismo.
I cereali e legumi possono fornire tutti gli amminoacidi essenziali nelle giuste proporzioni se si rispetta la nostra tradizione gastronomica mediterranea: un piatto di pasta e ceci o di pasta e fagioli (senza cotiche!) è un piatto completo ed equilibrato dal punto di vista nutrizionistico. Inoltre, i legumi contengono pochi grassi, molta fibra e discrete quantità di calcio e fosforo, vit. B e, freschi, anche vit. C.
Se vogliamo consumare della carne che non abbia un grande impatto ambientale la scelta delle produzioni biologiche è la più sostenibile e tra le produzioni biologiche prediligere chi cura gli animali omeopaticamente.
Soprattutto, dobbiamo essere consapevoli dell’obbligo di cambiare il nostro stile di vita, comprese le abitudini alimentari, e dell’obbligo di ridurre il consumo di carne se vogliamo contribuire ad evitare il rischio della catastrofe ambientale incombente.
Hai un account google? clicca su: