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Altro non so fare

Da Julesdufresne

Mio nonno amava scrivere. Scriveva a mano, con una bella grafia asciutta e guizzante, la mano fermissima fino all’ultimo, scriveva a macchina, riempiendo comunque le pagine di integrazioni e ripensamenti a penna, scriveva persino a computer, lui, che era stato adolescente negli anni ’30.

Mio nonno mi ha scritto per anni lunghe lettere, decine di lunghe lettere, indirizzandole alla bambina che ero ma pensando già alla donna che sarei diventata, preoccupandosi che quella donna -le fosse venuta a mancare l’esperienza diretta- fosse in grado di conoscere adeguatamente quel nonno così distante, per età e per relativamente scarsa frequentazione.

Mio nonno, lettera dopo lettera, ha rievocato per me un intero mondo. Io nascevo, pochi mesi dopo il crollo del Muro, e lui raccontava com’era stato venire alla luce all’alba del Primo Dopoguerra. Io accoglievo sospettosa il fratellino, e lui, che era l’ultimo di undici, ripensava ai suoi fratelli e alle sue sorelle, a quelle morte a Parigi prima di compiere vent’anni e a quelle che sarebbero arrivate quasi a cento, a quello che aveva studiato fino a diventare Dottore e a quelli, ancora ragazzini, che si erano sacrificati senza battere ciglio perché ciò fosse possibile. Io partivo per il primo piccolo viaggio da sola, e lui mi parlava della sua vita come soldato, come prigioniero, come reduce, come superstite.

Nelle sue parole ritrovo mia nonna, bionda, minuta, giovanissima, all’epoca fidanzata con uno sfortunato commilitone di quello che sarebbe poi diventato suo marito. Scopro che l’amore può nascere per lettera, anche se sei in un campo di prigionia a decine di migliaia di chilometri da casa e non sai ancora che l’amico a cui hai deciso di restare leale anche a costo di sacrificare la tua felicità è già morto e non potrà mai onorare la promessa di matrimonio che ha fatto prima di partire. Resto con il fiato sospeso, pur essendo io stessa l’ovvia testimonianza della loro prossima unione, fino a quando arrivo a leggere con i miei occhi il resoconto delle loro nozze trionfali nell’estate del 1946 (viaggio di nozze al Passo del Tonale, in Vespa, occhiali da sole e allure da spie).

Vivo con lui il peso dell’attesa di un figlio che per dodici anni non ne vuole sapere di arrivare, e che quando finalmente arriva uccide quasi la nonna, lei così minuta, lei così fragile, lei così preziosa. Lo osservo battezzare quel figlio amatissimo in onore di un padre altrettanto amato, perso da ragazzo e sempre rimpianto, e risentirsi terribilmente quando qualcuno, figlio incluso, ne abbreviava il nome in Beppe (la sempiterna crociata contro i nomignoli – lui, che per una vita intera si è firmato Sandro!)

Vedo crescere mio padre, adorato ma condotto con mano ferma, bambino appassionato di chiodi e martelli e disastri prima e studente con la fissa dell’alpinismo poi, e vedo entrare in scena mia madre, neanche diciottenne, subito accettata nella maniera incondizionata che si riserverebbe ad una figlia vera e propria; li guardo fidanzarsi seriamente, sposarsi, andare a vivere in Texas, tornare a casa dopo anni solo per mettere su famiglia. Trovo acclusa la foto di me neonata, ben stretta tra le braccia del nonno raggiante.

Da questo punto in poi, ovviamente, i resoconti su carta iniziano ad intrecciarsi ai ricordi che ho accumulato in vent’anni esatti di conoscenza reciproca: il nonno che mi conduce per mano alla Sma a prendere un quartino di latte per la mia colazione, il nonno al mare che mi mette sulla giostrina, il nonno che legge il Corriere, il nonno che colleziona tutti gli inserti del Corriere, il nonno che fa rilegare per davvero i fascicoli degli inserti del Corriere (e credo fosse una delle, non so, cinque persone al mondo a far fare una cosa del genere), il nonno che telefona alla radio per rettificare le scemenze che stan dicendo in trasmissione, il nonno che ha un’opinione seria e motivata su tutto ciò che è d’attualità.

Il nonno che cucina benissimo, il nonno sempre profumato di pulito e con addosso una camicia di bucato, il nonno che gioca a bocce e non perde mai. Il nonno che va a fare volontariato nella casa di riposo del quartiere e assiste gente di vent’anni più giovane. Il nonno orgogliosissimo il giorno che sono andata ad iscrivermi all’università e sono andata da loro a far vedere il libretto e il tesserino. Il nonno che mi prende da parte e dice che sì, Matteo è proprio un bravo ragazzo, è tanto contento che io stia con lui. Il nonno ha imparato nel giro di un’ora tutti i grandi segreti del Digitale Terrestre.

Il nonno che si fa accompagnare tutto orgoglioso alla Biblioteca Pubblica a Villa Litta, mi presenta a chiunque sia anche solo vagamente interessato, e sceglie per sé Ogni cosa è illuminata. Il nonno che mi porta a comperare un bel cappotto nuovo. Il nonno che resta in ospedale due mesi e mezzo e telefona per dire di lasciar stare di venire da lui e andare per favore a trovare la nonna, che di sicuro si sentirà sola. Il nonno che affronta a novant’anni un’operazione a cuore aperto perché “potrò mica lasciar sola la Gianna, io devo tornare a casa dalla Gianna!”. Il nonno che torna a casa dalla nonna, per pura forza di volontà.

Il nonno che ride quando gli racconto che ho visto in metropolitana un manifesto della Moratti con su scrivo Sta’ zitta, Batscema. Il nonno avidissimo di opinioni, racconti, riflessioni da parte mia. Il nonno arguto e spiritoso. Il nonno allegramente sconvolto dal mio ultimo taglio di capelli, Giulia, sei sempre la solita. Però stai benissimo, davvero. Il nonno che decide che lui e mia mamma andranno a Roma con la Freccia Rossa, in giornata, tanto per provare. Il nonno che è di una precisione maniacale e mi prende in giro perché io invece sono un casino, una nuvola di foglietti volanti, e non trovo mai nulla. Il nonno quietamente religioso che rispetta senza esitazioni il mio ateismo militante.

Il nonno che ha sempre avuto le mani lisce e calde, bellissime, e che l’ultima volta che ci siamo visti ha sorriso e stretto a lungo le mie, mentre io gli dicevo -ed era la prima volta, adesso che ci penso- quanto bene gli volessi, e poi ha ricambiato e mi ha detto di sbrigarmi ad uscire, che era sabato e io dovevo godermi la serata, non stare con i vecchi.

Il nonno che ieri sera si è addormentato, steso di fianco alla nonna, e oggi, serenamente, ha smesso di respirare.

Spero che questa possa essere -a lui piaceva tanto la mia maniera di scrivere, sono convinta che gli avrebbe fatto piacere- la mia inadeguata ma volenterosa testimonianza di che meravigliosa persona mio nonno fosse, persona che io mi reputo onorata di aver conosciuto, e di come il suo sia stato un andare via al termine di una vita lunga e bella, lucido e brillante fino all’ultimo giorno, circondato dall’amore sincero di tutti noi e serenamente convinto di avviarsi verso un luogo migliore. Di tutto il resto, oggi, non mi importa.

—–

Alessandro Villa

Gessate, 29 dicembre 1919 – 6 maggio 2011, Milano



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