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Dieci giorni fa un report dell'IAEA (l'Agenzia internazionale per l'energia atomica), organo dell'Onu, ha fatto tremare i polsi all'Amministrazione Obama. I tecnici dell'Agenzia segnalavano che Teheran aveva aumentato le scorte del suo combustibile nucleare del 20 per cento negli ultimi 18 mesi.
Marie Harf, la responsabile della comunicazione strategica del dipartimento di Stato statunitense, era sbroccata via Twitter come mai si era visto prima contro David Sanger, il capo corrispondente da Washington del New York Times, reo di aver scritto il pezzo che raccontava della tetra segnalazione dell'IAEA. Harf aveva sparato una raffica di tweet sull'articolo che si chiudevano tutti con un “not true”, non vero L'attacco alla credibilità del tempio del giornalismo moderno, è un caso unico davvero: magari Harf ha pure argomenti validi, ma il report resta e dice quel che dice. Allora quel che più conta è la reazione, perché il documento «pone un grave problema diplomatico e politico per Barack Obama», come scrive Sanger.
L'amministrazione americana ha scelto l'uso semantico della parola “congelamento” per spiegare l'impegno che gli ayatollah mettono sul tavolo negoziale. Si tratta di diciotto mesi di colloqui (proprio il tempo dell'incremento di cui parla l'IAEA, ma questo può sembrare facile sarcasmo) su cui Barack Obama ha investito buona parte della sua legacy in politica globale, e che si sono chiusi momentaneamente con un accordo quadro i primi di aprile, che però dovrà avere un seguito esecutivo entro giugno, sennò salta tutto ─ dunque siamo nella fase calda, quella più critica, dei negoziati (anche se non è escluso un allungamento).
“Congelamento” significa, in definitiva, due cose: primo, che l'Iran durante questo anno e mezzo ha bloccato il programma nucleare, e questa è l'aspetto su cui ci si gioca la fiducia, la prova di lealtà sul presente che apre la strada alla prospettiva futura; secondo che tutto resterà bloccato, congelato appunto, secondo i termini generici dell'accordo, per altri 10 o 15 anni ─ fidatevi, dice Obama, stanno già facendo molto (altro facile sarcasmo). Se ora l'IAEA dice che invece di “congelare” Teheran ha aumentato le proprie scorte di uranio arricchito, qualcosa non va: e quella fiducia sul futuro su cui tutto il piano negoziale si basa viene clamorosamente meno. L'Amministrazione passa per bugiarda, e vallo a spiegare che fare i patti con la Repubblica Islamica è cosa buona e giusta ─ inutile dire che si deve a questo la reazione di Harf. Scrive Mattia Ferraresi sul Foglio, che la volontà (o l'ossessione) di siglare l'accordo è forte «al punto da ingaggiare una battaglia pubblica contro un giornalista, in modo che tutti, da Washington a Teheran, possano vedere con quale zelo il governo bastona chi è fuori linea».
Ci sono gli israeliani, i sauditi e tutti gli altri “amici” del Golfo, c'è l'Egitto (tornato di nuovo amico e referente mediorientale), c'è l'Europa (quasi tutta, soprattutto la Francia), c'è un folto gruppo di Congressman bipartisan (ai quali l'accordo non va giù e che aspettano l'occasione per farlo saltare), ci sono diversi interessi pesanti. È ancora folto il gruppo di quelli da convincere e riallineare ─ e questo anche se in molti stanno facendo “buon viso a cattivo gioco”.
Giovedì scorso, i primi due del gruppo di poche righe sopra, cioè Israele e Arabia Saudita, hanno pubblicamente condiviso la propria unità nel cavalcare una strategia comune in Medio Oriente: questa visione a lungo termine sulla stabilità regionale ha come fulcro contrastare le mire espansionistiche iraniane nell'area. Non si è trattato di un incontro ufficiale dal punto di visto diplomatico, ma la stretta di mano tra il prossimo direttore del Ministero degli Esteri israeliani, Dare Gold (fidatissimo di Bibi), e un importante ex generale e consigliere del re saudita, avvenuta al Council on Foreign Relations di Washington, ha un immenso valore simbolico. La notizia già di per sé succosa, perché ci dice che due delle tre principale potenze dell'area pensano di accordarsi per contrastare la terza ─ e non preclude niente di buono ─, aumenta di valore se si presta attenzione ad altri dettagli. A cominciare dal fatto che sauditi e israeliani non hanno nessun tipo di rapporto ufficiale, per capirci se hai un visto israeliano sul passaporto, tu turista non puoi entrare nel regno dei Saud, che non riconosce l’esistenza d’Israele ─ in via informale, invece, c'è un intenso e duraturo scambio di informazioni di Intelligence incentrate sulle questioni iraniane e terroristiche. Inoltre i due Paesi sono i principali alleati americani nell'arco mediorientale: il fatto che decidano di pubblicizzare le proprie visioni comuni contro l'Iran, è un'altra di quelle cose che non farà riposare bene Obama. Mentre “lui” sta cercando di riqualificare Teheran agli occhi della diplomazia mondiale siglando un'intesa che come futuribilità si prospetta più “storica” della riapertura dei rapporti con Cuba, suoi compari in Medio Oriente, sfiduciati e lontani chilometri dalla linea della Casa Bianca, di intesa ne potrebbero fare un'altra che ha come fine tutto meno che la “riqualificazione” iraniana ─ tornasole della sfiducia saudita è stata la rinuncia plateale del sovrano alla partecipazione al summit di Camp David con i Paesi del Golfo.
L'incontro sarà pure stato non ufficiale, ma appena due giorni dopo, è iniziata a circolare la notizia che Israele avrebbe offerto ai sauditi il proprio scudo antimissilistico Iron Dome, per dispiegarlo lungo i confini yemeniti del Regno ─ là a sud, Riad sta portando avanti una campagna aerea contro i ribelli sciiti filo-iraniani Houthi, che di fatto è una guerra indiretta a Teheran.
Quando israeliani e sauditi parlano di “mire espansionistiche” iraniane, si riferiscono a un'operazione in atto da tempo, in modo non convenzionale: per capirci, non è che l'Iran sta apertamente invadendo altre nazioni. Di fatto, però, Teheran sta invadendo silenziosamente l'Iraq, la Siria e da ultimo anche lo Yemen. I consiglieri militari da Teheran si muovono in lungo e in largo per l’Iraq, dove appoggiano, tramite le milizie sciite locali (braccio mobile dell'espansionismo silenzioso), l'esercito governativo nella lotta allo Stato islamico; altrettanto fanno in Siria, dove però si trovano nella discutibile posizione di dare sostegno da sempre all’alleato storico dell’area, il regime di Damasco, che mentre combatte "dolcemente" l’IS, sferra i colpi peggiori contro tutti gli altri gruppi di ribelli ─ è una scelta deliberata di Assad, e dell'Iran, far passare tutti i ribelli come jihadisti sunniti, eliminando i moderati e lasciando spazio ai radicali.
Mesi fa girava un bullo tra gli alti funzionari militari della Guida suprema Khamenei, che spiegava (anonimo) ai giornalisti occidentali: «Noi occupiamo quattro delle capitali arabe» ─ e il riferimento era a Baghdad, Damasco, Sana'a e Beirut, dove Hezbollah praticamente è un'emanazione della mente iraniana. Molti analisti concordano nel dire che l’interessamento alle vicende irachene, siriane e yemenite, è soltanto un tentativo dell’Iran per marcare la propria presenza: una sorta di proxy per diffondersi e radicarsi all’interno di questi Paesi, ottenerne presa e fedeltà, con il fine di segnare presenza e controllo in Medio Oriente. Un'azione espansionistica silenziosa, insomma.
Un'attività che rende ancora più tesa la situazione in Medio Oriente: e ora vaglielo a spegare ai tuoi alleati laggiù, che dovrebbero fidarsi di te, che l'accordo sul nucleare è un bene, che gli iraniani si stanno già impegnando a fare i bravi. Davanti a certi fatti ─ altroché "not true".
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