Vi sono ricordi di mio padre che non sono mai riuscito a incasellare con un certo ordine. Da un lato, quando accade, ne parla con rabbia, dall’altro lato, proprio perché conosco bene tali dinamiche, ho sempre preferito non chiedere più di tanto, profittando di quei momenti di apertura che fossero di sua volontà per comprendere. Ricordi degli anni Sessanta, quando lui, giovanissimo emigrato dalla Sardegna, viveva e lavorava in Lombardia. Nel capoluogo, più precisamente, in un noto ristorante del centro, a poche decine di metri dal duomo, lavapiatti prima, poi cameriere. Assieme a molti altri emigrati del meridione trascorreva la sua adolescenza lontano da casa e dalla famiglia, condividendo all’inizio un posto sotto un ponte perché non ci si poteva ancora permettere di avere una stanza, in un secondo momento pochi metri quadri con una decina di altri ragazzi, ma almeno c’era un tetto. E su certi accadimenti utilizza ancora oggi una parola: bastardi. Non ho mai faticato a intuire che i bastardi fossero persone, emigrate come lui, che avevano scelto di lavorare nel malaffare, già allora presente nella Lombardia che galoppava con le sue attività economiche, come oggi.
Nei ricordi di Catozzella, non nella forma, ma nella sostanza, ho ritrovato prossimità.
Quante cose facciamo per prossimità? Ciò che ci sta vicino per qualche emozione, per un’affinità intellettuale o per altri motivi. Esistono prossimità che percepiamo con chiarezza, altre molto meno. Quando qualcuno, da molti anni, raccontava nei quotidiani che le organizzazioni criminali si diffondevano nel ricco nord Italia, laddove le concentrazioni di denaro influenzavano la realtà circostante, non pochi sorridevano, convinti che fossero questioni marginali, piccoli casi isolati e soprattutto gestibili.
Nei ricordi del padre di Catozzella ho trovato prossimità perché sono simili ai ricordi di mio padre, anche lui consapevole che la criminalità non fosse estranea a tanti ambienti lavorativi della ricca Milano.
Che cosa è accaduto nel frattempo?
Innumerevoli inchieste, altrettanti articoli nei quotidiani, però ancora un’ingenua lontananza, non certo prossimità, da parte della gente settentrionale. Non ci riguarda. O l’idea che non ci riguardi.
Pochi anni fa Roberto Saviano ci ha raccontato con la sua capacità narrativa coinvolgente come la camorra sia viva e vegeta anche e grazie al nord, flussi di denaro consistenti nelle autostrade finanziarie dell’imprenditoria, con la consapevole contiguità della politica in non rari casi.
“Alveare” non parla di camorra ma di ‘ndrangheta, ritenuta dagli esperti da tempo la più pericolosa e strutturata, con codici di comportamento severi e con una storia decennale.
Catozzella, in “Alveare”, attinge dalla propria esperienza di vita, dalla sua infanzia, dai ricordi del padre, sputando una rabbia compressa per lungo tempo. Vincenzo, Mario, Pasquale e altri diventano la storia nella storia, la verità nella realtà. Un’Italia che i più credono presente nel sud, non certo nel nord.
«Ma per la ‘ndrangheta è più complicato. Esistono i picciotti lisci, appena reclutati, e i picciotti di sgarro, con all’attivo un po’ di esperienza, e comunque con non meno di sei mesi di attività dentro l’onorata società. La carriera si fa in base ai meriti. La meritocrazia è imperante, fondamentale».
Un merito conquistato con ordini impartiti dall’alto.
“Alveare” possiede un merito, vissuto dal basso: avere portato nella narrativa italiana la presenza della ‘ndrangheta nel Settentrione, sconfinando nei territori mafiosi dell’immaginario collettivo, destrutturandone le fondamenta.
Sentiremo parlare ancora di questo libro, sarà il caso editoriale dell’anno, non ho alcun dubbio. Perché manca poco all’Expo, perché si sentiva l’urgenza di un romanzo-inchiesta simile, perché del Settentrione duro e puro della Lega Nord ci credono soltanto oramai i più disorientati, perché, nonostante la tanta paccottiglia che troviamo spesso nelle librerie, questo è un libro potente, con una voce unica, non una copia di Gomorra, non cadete in errore, qualcosa di più: non un ragazzo del sud che racconta la camorra del sud e l’omertà, facendo anche riferimenti al nord, ma un ragazzo del nord che racconta la ‘ndrangheta NEL nord e le sue trasformazioni grazie al denaro abbondante, grazie all’ingenua e snobistica distanza di noi settentrionali verso le criminalità organizzate.
Conosco Giuseppe Catozzella, non posso dire che sia un caro amico, ma l’ho incontrato, ci siamo parlati più volte, “Alveare” mi ha permesso di capire un po’ della sua vita, e, inaspettatamente, di capire un po’ di più mio padre. La potenza della letteratura.