Amanti traditi

Creato il 23 gennaio 2012 da Conflittiestrategie

“Sono convinto che non avremo mai gli Stati Uniti d’Europa. Già solo per il fatto che non ne abbiamo bisogno. La sussidiarietà è il grande tema dell’Europa, e questo vale in due direzioni”
“Occorre comprendere che questa crisi non è la conseguenza di un difetto del modello europeo, bensì deriva dagli Usa. In Europa questa crisi – e ciò è parte della nostra storia di successo – non avrebbe mai potuto succedere. L’Europa è virtualmente in un’ottima posizione. Dobbiamo comprenderlo e accettarlo”. Così Monti nell’ultima intervista a “Die Welt”.
Come se non bastasse, il Premier, nei giorni precedenti dichiara perentoriamente di aspettarsi una flessione significativa dei tassi di interesse ad opera dei mercati; in quelli successivi, corrispondenti alla decisione paradossale di declassamento del paese e di promozione del suo capo di governo operata da S&P, gli stessi ambienti governativi parlano di “attacco all’Europa”.
Un mese da Presidente del Consiglio ha potuto più di anni e anni di onorato servizio in veste di Commissario Europeo, di advisor di G&S e, con qualche caduta di stile dovuta a sindrome gorvacioviana, Coca Cola, di autorevole componente di Trilateral e Gruppo Bilderberg.
Sessant’anni di retorica europeista, di annunci di progressivo avvicinamento alla meta degli Stati Uniti d’Europa ridotti tutti ad un vacuo miraggio, con le istituzioni europee ridotte ad una funzione sussidiaria, senza capacità coercitiva propria e politica autonoma, rispetto alle competenze dei singoli stati europei e con poteri effettivi, in realtà, in mano ai singoli stati, a cominciare da quella dominante extraeuropea.
Trenta anni di fede nelle capacità autoregolative, apolitiche e di giustizia inappellabile dei mercati di fatto incrinata da una esortazione e un’accusa.
Ad opera di chi, poi! Proprio dalla bocca di uno dei profeti e apologeti più in vista ed ossequiati di quelle due visioni.
Tanta deferenza è riuscita, sino ad ora, ad accecare gli occhi e le menti delle migliori penne tra le fila della “libera stampa” e a celare le nudità non più acerbe del regnante.
La sagacia, non si sa se teleguidata  o di “motu proprio”, del personaggio è evidente; se il Cavaliere era avvezzo agli annunci maramaldeschi, il Professore usa affidare a testate amiche le bozze ufficiose dei provvedimenti, salvo smentirne o correggerne i contenuti in caso di reazioni e rimostranze eccessive.
Ciò nonostante, già due volte il Premier è scivolato dall’annuncio di una palingenesi rigeneratrice e purificatrice ad una prosaica trattativa a porte socchiuse con le varie categorie interessate ai provvedimenti.
In questo, il conflitto tra il rigore teorico e la coerenza di immagine dell’accademico e la sagacia accomodante del commissario avvezzo alle frequentazioni e mediazioni lobbistiche proprie di quel luogo di elezione all’uopo che è la Commissione Europea deve probabilmente dilaniare la personalità del personaggio.
La sua cooptazione nei gruppi informali della Trilateral e di Bilderberg, dovrebbe consentirgli di padroneggiare al meglio gli impulsi contrastanti e affidare alla politica e alla strategia il ruolo guida nei comportamenti. Tutto dipende dal ruolo effettivo svolto in essi: da protagonista, come potrebbe essere quello di Mario Draghi oppure da servitore, sia pure di rango.
I servitori, si sa, sono spesso accecati dalla gratitudine verso i padroni e dal compiacimento verso il proprio status.
Sta di fatto che su uno dei cavalli di battaglia del liberal-liberismo, quello della liberalizzazione delle professioni, si è partiti annunciando sfracelli: riduzione degli ordini a semplici associazioni, abolizione del valore legale dei titoli di studio, totale libertà di avvio delle attività, eliminazione delle tariffe minime; si sta arrivando ad una trattativa che punta, di fatto, ad un semplice incremento della quota di licenze disponibili in alcune categorie (notai, farmacisti, tassisti) e alla compilazione di elenchi di prodotti vendibili da operatori diversi (farmaci) ad opera di apposite commissioni, luoghi deputati, solitamente, a ospitare interminabili contrattazioni e oscure compensazioni.
Nelle more si scopre che la gran parte dei ceti professionali, in particolare quelli tecnici legati alle attività industriali non sono inquadrati in ordini professionali; le tariffe minime sono rimaste solo in un paio di ordini professionali; gli accessi sono regolati in maniera differente nei vari ordini.
Una situazione talmente variegata, per di più in un contesto di crisi economica che sta intaccando pesantemente i margini operativi, da rendere velleitario e superficiale ogni approccio ideologizzato e semplificato.
A prescindere dalla eventuale condivisione della impostazione di fondo, tutt’altro che scontata, men che meno dallo scrivente, sono evidenti le fasi di stallo cui andrà sempre più incontro questo Governo a causa della divaricazione tra una realtà complessa ed una interpretazione semplicistica.
La condizione migliore per giustificare distrazioni laddove la liberalizzazione potrebbe riservare qualche effetto (notai), accanimenti unilaterali in ambiti in cui una categoria (i tassisti) è relativamente chiusa all’interno ma in competizione con altre nel settore; il brodo di coltura per favorire la conduzione di trattative di tipo lobbistico e con risultati, a detta degli stessi fautori, diluiti nel tempo e di entità risibile dallo stesso punto di vista del consumatore, totem indiscutibile e comodo paravento del pensiero liberal-liberista.
La condizione migliore per additare l’untore di turno e eludere il fattore scatenante della proliferazione della quantità e dei costi dei servizi professionali, in particolare di quelli legati alla pubblica amministrazione: la farraginosità, la ridondanza, il parassitismo di gran parte della pubblica amministrazione accompagnate da una organizzazione interna e di formazione e classificazione del personale incapace di adeguarsi ai processi di lavoro informatizzati.
Ernesto Galli della Loggia sembra aver scoperto solo mercoledì scorso che una delle fonti del potere effettivo risiede più che nei politici in scena, in quei “Gran Commis di Stato”, “un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali.” “È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese).” “Designati dalla politica con un g r a d o a l t i s s i m o d i arbitrarietà” “si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.”
E’ già qualcosa per la corrente liberale che, da sempre, tende ad identificare la fonte del potere negli organi rappresentativi ed elettivi; è, però, ancora una interpretazione riduttiva, fuorviante e autoreferenziale del ruolo di figure che fanno parte a pieno titolo, in grado diverso, dei gruppi strategici decisionali del paese, impegnati, quindi, non solo al mantenimento delle proprie prerogative e nicchie di potere.
Il continuo rinvio della riorganizzazione delle amministrazioni statali, sancito ulteriormente dal patto scellerato informale tra Governo, Confindustria e Sindacati teso a penalizzare i pensionati in cambio della temporanea salvaguardia della condizione del pubblico impiego porterà, in tempi non molto lontani, a scelte sempre più drammatiche ed improvvisate, all’interno delle quali ci saranno pochi spazi per distinguere compiti e funzioni delle varie frazioni; ce ne saranno al contrario molti per la salvaguardia dei gruppi, magari importanti nella forza d’urto, ma parassitari nel ruolo e nelle scelte.
Sono processi già verificatisi nella riorganizzazione delle grandi aziende di servizio pubblico, come le Poste e le Ferrovie, laddove i drastici ed improvvisi ridimensionamenti di personale hanno portato all’esodo del personale tecnico più specializzato e all’impoverimento professionale delle aziende; alla salvaguardia di consistenti sacche di occupati, magari concentrati ed agguerriti sindacalmente ma presenti proprio in quei settori decotti e parassitari teoricamente più interessati alla riorganizzazione, a scapito di settori professionalmente più importanti per il futuro delle aziende, ma più dispersi e frammentati; alla selezione professionale di figure dirigenziali in prevalenza da quei settori genericamente detti parassitari e residuali.
Si stanno creando tutte le premesse per riproporre su scala ben più ampia, nei settori essenziali dello Stato e della Pubblica Amministrazione, quegli stessi processi con la certezza di procrastinare una politica subalterna e parassitaria su basi economiche più compatibili.
L’altro aspetto su cui Monti sembra scivolare progressivamente, anche se ancora ben puntellato dalle forze politiche nazionali, è il contesto europeo  entro cui deve agire.
Parlare di contesto europeo non significa ignorare il ruolo fondamentale e prevalente che gli Stati Uniti di Obama hanno nel determinare la condizione del nostro paese.
Al contrario, la nomina dei ministri degli esteri e della difesa sono il miglior certificato del peso avuto dall’Amministrazione Americana in questo rivolgimento; tutte le scelte successive di politica estera, dall’Iran, alla Turchia, ad Israele, alla Libia, sono state l’espressione di quanto di più codino e, quindi, insignificante nel condizionare le scelte geopolitiche si possa immaginare negli ultimi decenni. La stessa conferma, roboante, dell’acquisto dei caccia F35 sancisce in maniera definitiva, per un paio di decenni almeno, l’integrazione e la dipendenza tattica della difesa italiana da quella statunitense, il monopolio della difesa strategica americana, la rinuncia a un minimo progetto di difesa e attacco aereo comune europeo, legato al declino del progetto “Eurofighter”, ormai relegato a qualche residua velleità tedesca.
Se a questo si aggiungono, tra i tanti elementi, l’incapacità dell’industria aeronautica militare francese ad uscire dai confini nazionali, non ostante la spettacolare campagna promozionale in Libia e la probabile prossima crisi del progetto franco-tedesco dell’Airbus si intuisce che non sarà certo dall’Europa che potrà nascere un polo se non indipendente, almeno autonomo dalle prepotenze americane.
In questo “grande gioco” l’Italia sta compiendo il miracolo di essere nello stesso tempo la principale vittima designata e la complice sottomessa dello schieramento “amico”.
Rispetto al gioco duro e ai colpi bassi dietro le quinte, il palcoscenico riserva al teatrino della Unione Europea e degli stati europei una visibilità predominante.
Monti è stato il primo caso, in centocinquanta anni di unità d’Italia, di investitura pressoché esplicita di un Capo di Governo esterna al paese,.
Non è stato un complotto putschista da ventesimo secolo, così come si usava rappresentare semplicisticamente i colpi di mano da parte della sinistra novecentesca; al contrario, il sapiente dosaggio di decisioni, colpi di mano, condizionamenti dei vari ambiti di azione (da quello finanziario, a quello produttivo, a quello istituzionale, a quello più propriamente geopolitico) è proseguito negli ultimi due anni con certosina ostinazione sino alla resa, ma con una costante imprescindibile per il loro successo: la totale disponibilità e permeabilità dei vari schieramenti politici e delle varie fazioni nazionali nel ricercare il sostegno di gruppi di potere filoatlantici per le loro guerre intestine.
In questo quadro il Professore ha condotto la propria campagna promozionale invocando politiche di rientro del deficit e del debito pubblici e di sviluppo fondate sulle capacità autoregolanti del mercato, frutto comunque di regole negoziate, necessarie a salvare l’Europa e salvaguardare la permanenza in essa dell’Italia.
È l’illusione su cui conta di poter costruire un consenso accettabile sulla futura nuova classe dirigente italiana sulla base di un accordo tra Chiesa Cattolica, associazioni imprenditoriali e sindacali da una parte e tra i partiti in via di riaggregazione dall’altra.
È una visione che potrebbe legittimare la riproposizione delle politiche di svendita e dismissioni degli anni ’90 e di subalternità del paese.
Su queste basi Monti ha ricevuto l’investitura esterna e l’accondiscendenza interna al suo incarico. Dopo trenta anni si tratta di una quadratura difficile da conseguire con il consenso prevalente del paese, come accaduto due decenni fa; molto più probabile che possa riuscire solo con una ulteriore disgregazione e feudalizzazione del paese; su questo gli “investitori”, tanto quelli politici che quelli economico-finanziari, si sono dimostrati tanto cortesi ed accoglienti nella forma quanto intransigenti nella sostanza dell’incarico assegnato.
Non che il personaggio sia del tutto arrendevole e accondiscendente nella stessa misura verso tutti i suoi signori; da servitore avveduto e furbo conosce il peso diverso dei suoi padroni e su questo gioca e centellina le sue carte, per meglio dire le sue due carte: l’europeismo classico degli anni ’90 e le liberalizzazioni-dismissioni-privatizzazioni della residua industria strategica e dei servizi pubblici.
1.    L’europeismo di Monti
Monti ha ricevuto i primi due schiaffi da due suoi sponsor: Standard & Poor, Angela Merkel. Trattandosi dei primi, si può dire che la reazione sia stata adeguata, anche se almeno il primo potrebbe essere addirittura un assist. S&P ha declassato di recente pesantemente l’Italia ed altri otto paesi europei. A prescindere dal giudizio di imparzialità di una agenzia espressione della potenza americana, costituita da quelle stesse forze finanziarie dominanti impelagate a pieno titolo nei giochi speculativi, a detta di Monti S&P ha promosso l’Italia e bocciato l’Europa. In realtà S&P ha stroncato l’Italia, promosso paradossalmente Mario Monti, cioè il governo di quel paese stroncato e avvertito l’Unione Europea che, senza una politica comunitaria di crescita, il continente rischia l’insolvenza. Una prima dicotomia, quindi, tra Governo e paese, confermata dal differenziale di spread sul debito a breve e lungo termine. Una prima soluzione, secondo il Premier, sarebbe quindi il potenziamento significativo del fondo salva stati e l’emissione di eurobond, l’allentamento dei vincoli di bilancio in base alla congiuntura economica e una maggiore integrazione del mercato europeo. S&P, però, parla di crescita ma intende, in realtà, sovranità dei paesi, associati o meno; l’agenzia stessa è un’arma di un paese sovrano usata contro paesi più deboli e ricattabili. Tanto è vero che gratifica di giudizi positivi paesi ben più esposti sul debito e sulla stagnazione. La stessa idea di sovranità non è legata esclusivamente a quella monetaria, la panacea tanto in voga anche tra i critici indignati di un mondo dominato dalla finanza, ma a tutta la gamma di arnesi che consentono agli stati ed ai paesi di garantirsi l’autonomia decisionale e la potenza; per non parlare poi dell’equivoco che ingenera il termine di “politiche della crescita” con il quale si esprimono sia le raccomandazioni del FMI, della Banca Mondiale e degli americani le quali hanno contribuito all’asservimento ed impoverimento di interi continenti, sia le politiche “listiane” dei paesi emergenti. Si sa dove si rivolgono le nette preferenze del professor Monti. Sta di fatto che il Presidente del Consiglio sta utilizzando anche questi ceffoni per riproporre, sotto altre spoglie, una politica europeista fondata sulla concertazione tra tutti gli stati europei tesa a rompere il duopolio francotedesco già pesantemente incrinato dai movimenti finanziari e indebolito dal comportamento ballerino della Francia; in questo sta trovando l’appoggio della Commissione Europea, desiderosa di recuperare almeno in parte le antiche prerogative.
Si tratta, però, del solito ecumenismo capzioso teso a ridurre il problema dell’unità geopolitica continentale al consolidamento e integrazione del mercato comune, delegando di fatto agli Stati Uniti il ruolo di supervisore e collante del continente. Non è un caso che Monti stia cercando nella Gran Bretagna (the voice of America in Europe) e nella Polonia gli alleati necessari a condurre questa politica destinata a frammentare ulteriormente il continente e a riproporre i futuri conflitti tra gli stati ad una competizione tesa a conquistare i favori del dominus.
Quanto sia capzioso, nella sua stessa arida visione economicista, il comportamento del Presidente del Consiglio, ex Commissario Europeo lo dimostra l’accanimento velleitario verso i “corporativismi” di tassisti e avvocati, l’ostinazione mediatizzata nel perseguire, anni fa, i comportamenti di Microsoft sull’offerta del browser Explorer contrapposto al totale silenzio attuale e precedente sulle commistioni che hanno consegnato la quasi totalità delle borse europee in mano americana e inglese, gestite da società impegnate esse stesse nei movimenti speculativi che le stesse borse dovrebbero controllare e sull’assenza di controllo delle operazioni finanziarie esterne al mercato borsistico.
Non sarà certo Monti a determinare l’esito di questo scontro; tutto dipenderà, piuttosto, dalla capacità della Germania di tenere assieme i cocci del simulacro europeo e degli Stati Uniti di rientrare direttamente nel defatigante gioco tra i tanti stati europei.
La propensione di questi ultimi verso la prima opzione pare ancora evidente, semplicemente perché la Germania non ha ancora scelto nessuna reale politica autonomista.
2.    L’integrazione subordinata del paese vista da Monti.
È la grande missione di questo governo, grazie alla quale sono in tanti, molti di più di quanti appaiono, quelli che cercheranno, nel paese e fuori, di tenerlo in vita.
Non un ruolo meramente distruttivo, come l’opposizione radicale ama comodamente disegnare per giustificare la battaglia del 99% contro il residuo 1% di satrapi dominanti; quello, bensì, di costruzione del paese in una posizione ancora più subordinata e complementare.
Un compito cruciale e complesso, dall’esito incerto, con l’obbiettivo ambizioso di creare quel blocco sociale necessario a dare forza al progetto.
Il ruolo della grande industria strategica; la riorganizzazione delle grandi reti di servizio nazionali: gas, ferrovie, poste (soprattutto bancoposta e rete di sportelli), elettricità, porti; la riorganizzazione delle reti di servizio locali; i sistemi di incentivazioni alle attività piccole e medie e di semplificazione delle procedure non sono un problema meramente economico, ma di ricostruzione delle basi di consenso e di riorganizzazione dell’apparato statale.
Si tratta, tendenzialmente, di cercare di salvaguardare almeno in parte l’autonomia della gestione delle grandi reti in cambio del cedimento criminale sul ruolo internazionale residuo delle imprese strategiche; di favorire la sopravvivenza del ceto manageriale ed imprenditoriale medio-alto con una integrazione subordinata alle grandi imprese, americane soprattutto e franco-tedesche;  di orientare la piccola e media industria, sempre più fondamentale, purtroppo, in questo disegno, ad un ruolo meno complementare rispetto all’economia tedesca; di garantire, con l’accesso alla gestione della rete di servizi locali, posizioni di rendita ai ceti imprenditoriali di media grandezza; di sviluppare attività coordinate di ricerca con una solo parziale industrializzazione dei brevetti.
In questo quadro, a mio avviso, vanno lette le recenti operazioni su Edison e in minor misura Italo, le modalità di ricapitalizzazione di Unicredit, le incertezze sul destino di Bancoposta la cui separazione e privatizzazione porterebbe alla totale esposizione del debito pubblico e del finanziamento bancario agli umori ed ai ricatti geopolitici e finanziari dei dominanti occidentali; un po’ troppo anche per i più fedeli servitori. Non è un caso che gli strali contro il mercenario Marchionne siano ormai indirizzati anche dalle sedi più conformiste come quella del Corriere e che i veri strateghi, come il Presidente di General Electric Europa dichiari in controtendenza che l’Italia è un ottimo paese per investire e con il quale collaborare perché “fa ricerca, si assume il rischio delle sperimentazioni imprenditoriali ma non dispone di grandi piattaforme industriali necessarie a costruire e realizzare le attività”, che “il paese dispone ancora di attività significative ma con una realtà imprenditoriale e manageriale limitata”. Un leit motiv già ascoltato negli anni ’60, ’70 e ’90.
Per il conseguimento di questi obbiettivi Mario Monti e le figure emergenti del suo schieramento, destinate a prendere in futuro le redini del paese, si stanno dotando di armi pesanti ed insidiose; tra queste i poteri di accertamento fiscale e di intervento sul prelievo che mettono in condizione alcuni di quegli “oligarchi di stato”, citati da Della Loggia, di determinare pesanti politiche selettive verso soprattutto i settori dei ceti medi. La campagna antievasione, compresi i blitz nelle località vip, è qualcosa di molto più pesante di una semplice trovata propagandistica, come adombrato dall’ex ministro Visco.

Su questi progetti Monti dispone di molte più accondiscendenze di quelle manifestate nel teatrino mediatico.
Non solo i bacchettoni rigoristi della spesa e dell’evasione fiscale i quali, urlando al lupo degli sprechi e dei grandi evasori, in realtà alimentano la fuga dei capitali e la pelatura dei ceti medi, in particolare quelli produttivi ed il taglio e degrado dei servizi; anche la quasi totalità dei sindacati i quali non sanno far altro che balbettare su una politica redistributiva velleitaria e limitata perché ormai del tutto separata e avulsa da una politica industriale e di potenza. Su questo basterebbe consultare l’ultimo pietoso documento dei tre sindacati confederali.
Inaspettatamente, anche il fronte degli ottimisti, tra questi l’economista Marco Fortis, i quali riconoscono i limiti evidenti della struttura industriale e di servizi del paese, ma alla fine tessono le magnifiche sorti e progressive della piccola e media industria e del terzo settore nel garantire (sic) la coesione del paese ed il suo sviluppo futuro. Il rapporto sull’Italia nel 2009 dell’economista è, a tal punto, emblematico anche se interessante da esaminare.
In realtà tutta la politica appariscente di questa compagine, sufficiente ad ingannare i tordi e le allodole ben disposte a farsi infilzare, poggia su una politica dei diritti anche di per sé accettabile(contratto unico di lavoro, diritto al lavoro di giovani e donne) in grado di innescare di per sé, assieme alle liberalizzazioni, a loro detta, lo sviluppo del paese e su una politica di drenaggio dei redditi medi ed assistenziale dei ceti umili la quale, a detta degli oppositori di comodo favorirebbe la sparizione dei ceti medi e il dualismo sociale, ponendo, quindi, le premesse per l’ennesima battaglia redistributiva utile premessa alla compravendita di settori della società. Quello che si produrrà, invece, è una ulteriore frammentazione e precarizzazione dei ceti professionali, magari disconosciuta dal punto di vista della capacità di reddito, ma ancora importante ed essenziale nel ruolo e nelle funzioni.
Su questa visione il Governo può trovare ferventi sostenitori, come al solito fuori tempo massimo e fuori luogo, tipico dei servi sciocchi, come ad esempio il PD, impegnato attivamente da qualche settimana nella riproposizione degli Stati Uniti d’Europa. Non a caso chi sta programmando la formazione di nuovi gruppi dirigenti, guarda a ben altri lidi, riservando agli apologeti schiocchi il compito di fornire la truppa.
Ha bisogno, però, di promoters professionisti, ben conosciuti nelle varie fasi di restaurazione del paese.
Dopo quelli dell’antifascismo, dell’antimafia e della moralità è arrivato il momento dei professionisti dell’antitrust; molto meglio remunerati dei precedenti proprio per il carattere particolarmente disgustoso e mercantilistico dell’incarico.
A giorni un articolo sulla funzione di questo ennesimo spezzone del ceto medio semicolto e sulle conseguenze delle politiche da questo propagandate e attuate dagli attuali funzionari.
Le uniche incognite, comunque importanti, in grado di destabilizzare questo disegno sono i margini operativi consentiti dall’attuale élite dominante nel paese egemone e l’effettivo grado di rappresentatività e coesione delle organizzazioni politiche e sociali coinvolte nei processi.
Su questo, nonché sulla effettiva capacità di gestione, Monti ha manifestato già qualche limite evidente


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