Amato è un comune della provincia di Catanzaro di circa 800 abitanti, per un’estensione di 16 Kmq. Situato su una collina poco più a nord dell’istmo di Catanzaro, si estende dal fiume Lamato (da cui prende il nome) alla zona montana confinante con Serrastretta, comprendendo una parte della valle del fiume, la zona collinare e la zona montana. Come molti paesi della Calabria è stato divorato negli anni dall’emigrazione, tanto che ora appare come un luogo semideserto, fatto di boschi e campagne che appaio sterminati se rapportati ai pochi abitanti e alla lentezza della loro vita sempre ripetitiva. Il tutto si racchiude in quel grembo materno che è “’u barra ‘e Minottu”, diventato poi, dopo la morte del proprietario, “’u barra ‘e Willis”. E così, nell’”eterno ritorno” di quella vita che viene sempre più a coincidere col nulla, considerato che ormai si sono persi quasi tutti i rituali e le usanze, viene a trovarsi la gente del posto. In un clima del genere, si rimane aggrappati al centro culturale e si scongiura la crisi della presenza, giocandosi a carte un birroncino e guardando le partite la domenica, cercando di immedesimarsi il più possibile con la propria squadra. Il resto sono bestemmie sparse, battute scontate, discorsi sulla campagna e soprattutto silenzi, silenzi della desolazione presente all’esterno e che pian piano si era insinuata sempre più tra la gente e se non coincide col vuoto poco ci manca.
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In questo contesto il venerdì Santo diventa un momento singolare. Ormai, nonostante diverse persone continuino a popolare qualche angolo di campagna, la Pasqua come rito di passaggio è ormai un ricordo, divorata dall’industrializzazione, ovvero dal non dover essere totalmente dipendenti dalla campagna, e dalla televisione. Che senso avrebbe celebrare un passaggio che non segna più nessuna differenza sostanziale? Del resto le condizioni della gente rimangono quasi le stesse sia in inverno che in primavera. E così il Venerdì Santo, il momento della morte, ovvero della fine dell’inverno, la fase liminale dove la vita e la morte sembrano congiungersi, si spoglia del suo significato più profondo. Però, anche fuori dalla civiltà agraria, la morte rimane, soprattutto in un paese in crisi demografica ed identitaria. Ogni anno la processione della via Crucis si vede sempre più sottile. Essa sembra essere la misuratrice di una lenta agonia, presente da tempo ma della quale nessuno può prevedere quando sfocerà in morte. Così ogni anno torna la Via Crucis a ricordare la situazione e a costatarne lo stato.
Ad ogni modo, mettendo un attimo da parte la coincidenza tra il rituale e la condizione della comunità, il Venerdì Santo quest’anno, come gli altri del resto, ha coinvolto diversi anziani, attaccati al rito sia perché parte della loro identità, sia perché da tempo sentono la morte dietro l’angolo e preferiscono raccomandarsi “allu Signure”. Cercando un po’, poi, si potevano vedere piccoli gruppetti di bambini qua e là, presenti per volontà dei genitori e intenti a vedere il tutto come un gioco nel quale si corre dappertutto. Infine ecco persone di mezz’età che si mimetizzano tra gli anziani e un paio di ragazzi (uno dei quali ero io), presenze estremamente rare in questi casi. Ed ecco che ci si ritrova, tra una stazione e l’altra, a parlare del campionato amatoriale di calcio, della prossima partita della Juve e del primato perso dal Catanzaro nella seconda divisione della Lega pro. Ma torniamo al rituale. Quest’anno per la prima volta dopo anni si è tornata a fare “’a Pigghiata”. Così, mentre da una parte c’era la processione, che poteva racchiudersi in una viuzza, con al massimo un centinaio di persone, dall’altra andava in scena la passione interpretata dai residui della gioventù amatese. Residui perché è ciò che rimane della gioventù intesa in senso più spontaneo e pulsionale (se non bestiale), ovvero ciò che è rimasto dei bulli di paese. Se nella società del consumo, ossessionata dalla gioventù, c’è chi non vuole invecchiare, nella società del consumo di paese c’è chi non vuole superare i 14 anni. Si, perché i 14 anni rappresentano l’apice della presenza, il periodo in cui, presi dalle pulsioni, si è talmente sicuri di se stessi da ingigantire il proprio ego fino a diventare una sorta di grembo materno. Al di fuori dei 14 c’è il nulla, ovvero l’identità di paese, talmente sottile da non essere quasi percepita e l’identità religiosa, ormai non pervenuta. L’unica identità ad avere il diritto di cittadinanza è quella televisiva e per essere completamente assorbita ha bisogno della mentalità di un 14enne. Perciò ci si ritrova tre ventunenni presenti, il più importante come legionario romano (fare Cristo sarebbe stato segno di debolezza) e due a fare i due personaggi crocefissi con il Salvatore (purtroppo per loro il posto da secondo legionario era già occupato ma hanno voluto esserci lo stesso). Il tutto fatto per mettersi in mostra, per lo stesso ancestrale bisogno libidico che ha un pavone di aprire la coda e un pettirosso di cinguettare, ovvero mettersi in mostra, mettersi al centro dell’attenzione e in sintesi: mostrare di poter facilmente superare le selezione sessuale. Ed ecco il legionario con il tatuaggio sul braccio fatto da tre stelline, mentre il suo volto si riempie di orgoglio nonché di serietà, considerato l’importante incarico che si trova a ricoprire, impegnato ogni cinque minuti a frustare con una corda il malcapitato interprete di Cristo. E che dire dei due ladroni? Sul loro volto non c’è serietà ma solo soddisfazione. Insomma, la piccola rappresentazione sembra essere stata inscenata, più che dalla parrocchia, da Darwin e Freud.
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Di qui alla constatazione del disagio insito in tutto ciò il passo è breve. Si può benissimo percepire la voragine esistente tra i due mondi presenti alla processione: uno tradizionale, vecchio e increspato che sente ormai la propria fine e l’altro televisivo, giovane ma ugualmente increspato. Perché se i vecchi rituali, ormai vecchi decrepiti, avevano varie funzioni specializzate e miravano a canalizzare pulsioni e caratteristiche dell’essere umano, i nuovi non hanno niente di tutto questo, concepiscono solo la libido e l’aggressività, proiettando tutto in uno scenario di eternità truffatrice. Perciò anche esso sta per morire, anche se non vuole ammetterlo. Ma forse era già morto fin dall’inizio. Così, quello spaccato di vita amatese che è la Via Crucis viene a rappresentare il terribile baratro che c’è tra due mondi alla fine. Anche in questo caso il rituale rappresenta l’incontro tra la vita e la morte, in maniera del tutto contemporanea però. Da un lato la vecchiaia che vede sfociarsi in morte e perciò si raccomanda a Dio attraverso i rituali che da sempre conosce, mentre dall’altra c’è una gioventù di finti quattordicenni che a parte l’aggressività, il sesso e il consumo conosce solo il vuoto, finendo con l’essere culturalmente morta senza saperlo. La morte appare come insieme di modi di fare e rituali decrepiti, mentre la vita è presente come un’accozzaglia di istinti coperti da abiti truzzi ed attratta dai centri commerciali. Il tutto è separato nettamente dal confine tra la processione e la rappresentazione.
In questo caos di morti su morti è difficile intuire come evolverà la situazione. Ciò che è certo, come ci insegna la Pasqua, è che dopo la morte c’è la rinascita. Perciò, per quanto la Via Crucis possa attestare lo stato della fine, prima o poi ci sarà un inizio. Forse esso può essere simboleggiato dagli occhi annoiati di un bambino marocchino che per sbaglio si trovava a guardare la processione. Ad ogni modo, il miracolo supremo della resurrezione, bene o male, continua ancora a festeggiarsi ma forse l’unico vero miracolo che è avvenuto è stato vedere Gesù Cristo e i due legionari bere insieme un birroncino al bar.
Francesco Rizzo
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