Posted 11 settembre 2012 in Al Femminile, Kultura, Slider with 0 Comments
di Matteo Zola
Le genti slave che arrivarono in Europa nel VII° secolo dopo Cristo
non avevano una rigida divisione tra i sessi, e non esisteva una subalternità socialmente codificata della donna nei confronti del’uomo. Anche il
pantheon paleoslavo annoverava molte
divinità femminili legate al culto della terra e della fecondità. Divinità non secondarie per genti dedite all’agricoltura più che alla guerra. Secondo alcuni storici la “libertà” sociale della donna nei popoli slavi dell’alto Medioevo si deve alla
profonda influenza esercitata dalle genti scizie e sarmate. Addirittura per questi popoli si ipotizza la presenza di
donne guerriere da cui discenderebbe il mito delle Amazzoni.
Erodoto, nel suo celebre
Storie, già nel V° secolo avanti Cristo, evocava con dovizia di particolari quelle donne guerriere che, collocate sulla piana del Don, si univano ai giovani sciti prendendoli come amanti giusto il tempo della fecondazione.
Il mito delle Amazzoni
Il mito delle Amazzoni sarà un grande
topos letterario dell’alto medioevo. Con ogni probabilità è giunto in Europa insieme ai
sarmati, popolazione seminomade di cavalieri che, spinti in Pannonia dalle migrazioni dei goti, si fusero con le popolazioni slave presenti nella
bassa Moravia, ove poi si sviluppoò il primo grande regno slavo della storia. Per inciso: una certa mitografia fa risalire ai sarmati l’origine dei polacchi, e certo influenze ve ne furono, ma storicamente ha la stessa validità dei galli progenitori dei francesi. Il mito delle amazzoni lo ritroveremo nel VIII° secolo dopo Cristo nell’
Historia Longobardorum di
Paolo Diacono e ancora nel X° secolo il viaggiatore arabo tortosano
Ibn Ya’qub parla di donne guerriere nelle sterminate pianure della Rus’.
La libertà sessuale delle donne slave
L’elemento mitologico trova
riscontri nelle cronache dell’alto Medioevo:
Cosma di Praga, padre della storiografia boema, nel XII° secolo narra di
donne ceche che “desideravano ardentemente possedere armi ed eleggevano capitani all’interno del gruppo. Stavano in guerra né più né meno dei maschi e come questi cacciavano nelle foreste. Né facevano differenze tra abiti maschili e femminili”. In tempi successivi riscontriamo come le donne fossero ammesse nella
successione nobiliare in Polonia. La libertà sessuale era assai ampia. Sempre
Ibn Ya’kub racconta del privilegio delle
donne serbe nello scegliersi lo sposo e, più spesso ancora, di disporre di sè prima del matrimonio: “Quando una giovane si innamora di un uomo va alla casa di lui per soddisfare il proprio desiderio.
E se un ragazzo trova una fanciulla vergine la abbandona poiché se di buono vi fosse stato in lei qualcun’altro prima l’avrebbe voluta”.
Il cavaliere francese
de Beauplan, ingegnere al servizio del re di Polonia per ben diciassette anni, scrive che in Ucraina
“si vedono ragazze andar a far l’amore ai ragazzi che piaccion loro, e mai che falliscano un colpo”. Sempre in Serbia la donna poteva, con il consenso maritale, uscire temporaneamente dal vincolo matrimoniale per
farsi fecondare da un estraneo, qualora il marito non avesse potuto farlo.
Si tratta di pochi esempi che testimoniano di come la condizione femminile presso gli slavi fosse assai diversa da quella che ci costumava nel resto d’Europa.
Una “libertà” della donna che la lenta ma progressiva cristianizzazione ha fortemente ridimensionato ma di cui sopravvive tutt’oggi qualcosa. Basti pensare alle donne ucraine, che emigrano per lavoro lasciando a casa il marito e i figli. Una scelta che testimonia la profonda potestà femminile sulla famiglia.
La donna disprezzata e vendicativa. Il mito delle rusalki
Naturalmente, non erano tutte rose e fiori nemmeno nell’alto Medioevo. Un mito più di tutti restituisce la volubilità della condizione femminile: quelle delle
rusalki.
Le giovani che, disperate, si sono gettate nell’onda rapida dei fiumi,
si mutano rusalki, piccole onde che un giorno potrano vendicarsi dell’amante infedele
attirandolo nei gorghi. E’ il tema di un celebre scena drammatica di
Puskin: “Da que momento in cui, fuori di me, ragazza disperata e disprezzata, mi gettai nelle acque del profondo Dniper mi trovai rusalka fredda e possente, ogni giorno penso alle vendetta, ed ora, a quanto pare, è giunta la mia ora”.
La parola rusalki (rusałki, rusálke, rusalije, pусалки) è un termine generico per indicare le divinità, gli spiriti e i demoni femminili associati ai fiumi e ai laghi nella mitologia slava. Le varie tradizioni slave connotano differentemente le ruslaki, variandone caratteristiche fisiche e funzioni. In Russia sono note come beregine (da bereg, che significa sponda, riva). Nei Balcani vengono chiamate samovile dai bulgari e vile da serbi e croati. Il loro aspetto era attraente, giovane ed erotico: lunghi capelli intrecciati e occhi verdi, nude o vestite solo di fiori, il loro scopo era attrarre l’uomo infedele nelle spire dell’acqua. In taluni casi erano rappresentate come donne metà pesci, come le sirene della mitologia classica. Per inciso, il simbolo della città di Varsavia, legato al mito fondativo, è appunto una sirena. In generale venivano associate all’acqua e alla primavera, e potevano influire sulla fecondità delle donne, sui raccolti, sulla pesca, curare malattie, ma anche causare la morte.
Le rusalki erano dunque figure pericolose: la notte uscivano dall’acqua sedendosi sui rami dei platani e chiamando gli uomini di passaggio. Se questi erano infedeli, venivano travolti dalle acque e uccisi. La donna tradita, divenuta rusalka, poteva liberarsi dalla sua condizione demonica quando l’amante infedele veniva infine punito.
La rusalka oggi
Alle rusalke sono ancora oggi dedicate feste. In Ucraina vengono ricordate con una festa all’inizio della primavera, connessa alla fecondità. E’ interessante notare come il mito delle rusalki racchiuda una serie di significati, in parte sopravvissuti nel folclore e nella mentalità slava, che fanno della donna un essere magico, legato alla ri-generazione della natura, ma al contempo demoniaco. Un essere capace di vendicarsi se viene tradito il patto amoroso. Un essere che può dare la morte pur legandosi alla vita, che agisce dominata dall’odio perché ha conosciuto l’amore.
Forse non è temerario affermare che questo mito sopravviva – per estremo – nelle lotte di movimenti come le Femen (che nude, appunto, attraggono con l’inganno erotico ma il cui scopo è una rivendicazione sociale) o nelle ormai note Pussy Riot, in cui l’elemento erotico presente fin nel nome si lega a un ben più radicale messaggio politico. Il patto che è stato rotto è appunto quello sociale, il riconoscimento della sostanziale uguaglianza tra i sessi. Uscendo dai casi di cronaca, invero un po’ estremi, esiste nella donna slava un richiamo all’autonomia (mai realmente negata) che si scontra con il paternalismo di società mascoline e muscolari.
Massimiliano Di Pasquale, nel suo Ucraina terra di confine, racconta di Asgarda, un gruppo di centocinquanta ragazze che si proclamano discendenti delle Amazzoni. Kateryna Tarnovska, leader del movimento, dichiara che lo scopo è emancipare l’Ucraina dal retaggio totalitario, liberando i sogni e desideri delle donne. Donne che vivono secondo una regola comune, e le cui figlie vengono “educate” dal gruppo una volta raggiunta l’età di tre anni. L’acqua è l’elemento sacrale. Asgarda, nome dell’associazione, fa riferimento alla mitologia nordica. Un pasticcio culturale? Non proprio se ricordiamo che il primo regno russo, quello kieviano, è stato fondato da guerrieri vichinghi. Tutto si tiene, nel passato nel presente delle donne slave.
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