“Kairos” è un’antica parola greca, che rimanda a un tempo sospeso in cui accade qualcosa di speciale. Partendo da questo concetto, il regista belga Alexis Destoop ha costruito il film omonimo, nel quale si narra di una catastrofe temporale che ha cancellato la concezione del tempo lineare, opportunamente sostituita da una tecnologia che estrae “tempo grezzo” e lo trasforma in tempo-merce. La location è quella arida del deserto australiano che circonda la miniera di Broken Hill. Ne viene fuori una sorta di falso documentario che procede per ellissi, disseminando indizi su una delle zone minerarie più sfruttate al mondo, dove l’estrazione è un’altra faccia della colonizzazione e dove la desertificazione del luogo diviene metafora di quella mentale.
Da queste premesse nasce la soundtrack del film, orchestrata da Randall Dunn, che coinvolge l’amico O’Malley, che coinvolge l’amico Ambarchi. Ed è già culto. A iniziare dal luogo di registrazione, una vecchia stazione radio di Kortrijk, in Belgio, riallestita per l’occasione dal trio con l’aiuto di alcuni volontari. A film ultimato, le tracce sono state sovraincise e ri-mixate da Dunn nel famigerato Aleph Studio di Seattle, uno dei luoghi “liturgici” del giro drone doom americano (familiare a O’Malley, ma che ha visto nascere, tra gli altri, dischi di Earth, Wolves In The Throne Room, Eyvind Kang e, ovviamente, Master Musicians Of Bukkake). Questa seconda versione è contenuta nel doppio lp Shade Themes From Kairos.
Il disco reinterpreta i paesaggi bruciati intorno alla Silver City servendosi di sei lunghe improvvisazioni. Si parte dall’incedere ritual-marziale di un drumming sporco, a inscenare un’apocalisse da fine dei tempi (o meglio da fine-tempo), fino a rievocare la desertificazione post-industriale attraverso la celebrazione di spazi vuoti e inquinati (“That Space Between”). Altrove i riff evidenziano una natura marcita sotto un sole plumbeo (“Temporal, Eponymous”), per dilatarsi là dove il rullante è un’ombreggiatura. Qui la voce di Ai Aso (chanteuse pop psichedelica da poco accolta in casa Ideologic Organ) rievoca il fantasma dei Mamiffer e i layer di chitarra quelli di Eno e Budd (“Sometimes”). Chitarre eleganti e un vibrafono che riluce galleggiano nel loro kairos e l’erranza per un momento diviene stasi e quiete.
Troneggia sul finale “Ebony Pagoda”, che apre a squarci ballardiani di chitarre e synth, a orchestrare il divenire di un tempo moltiplicato per se stesso all’infinito.
Nel disco ritroviamo sia l’oscuro sperimentalismo dell’ultimo O’Malley (quello di ÄÄNIPÄÄ, ma soprattutto dell’Ensemble Pearl), sia il dominio di Ambarchi sulle equalizzazioni e sulla parte armonica. I suoni originari delle chitarre sono trasfigurati in tramonti al neon e forse questa è solo un’altra versione del film, ridiretta dallo stesso Dunn. Ci si alterna tra jam band e minimalismo dark ambient, procedendo per dislocazione a climax alternati.
La copertina, affidata al simbolismo metafisico di Denis Forkas Kostromitin, si lascia specchiare dentro come al solito, rimanendo inaccessibile e facendosi ancora metafora del (non) tempo.
Tracklist
A. That Space Between
B. Temporal, Eponymous
C1. Circumstances Of Faith
Tabla – Tor Deitrichson
C2. Sometimes
Vocals – Ai Aso
D. Ebony Pagoda