AMÉLIE NOTHOMB scrive a Letteratitudine (per “La nostalgia felice”)

Creato il 26 febbraio 2014 da Letteratitudine

Il nuovo ospite diL’autore straniero racconta il libroè la scrittrice belga Amélie Nothomb.

Amélie ha scritto a Letteratitudine per raccontarci qualcosa sul percorso che l’ha portata alla scrittura del suo nuovo libro “La nostalgia felice” (pubblicato da Voland e tradotto da Monica Capuani). Questa è la scheda di presentazione del volume…

Un bizzarro e coinvolgente viaggio sentimentale: sedici anni dopo le tragicomiche peripezie raccontate in “Stupore e tremori” e in “Né di Eva né di Adamo“, Amélie Nothomb torna in Giappone. È l’occasione per rivedere i luoghi e le persone amati dopo lo spaventoso terremoto di Fukushima del 2011.

Ringraziamo  Amélie per il contributo che ci ha inviato e ringraziamo la casa editrice Voland per averci concesso la possibilità di pubblicare un estratto del libro (che potrete leggere di seguito).

Grazie mille!

Massimo Maugeri

P.s. Nelle precedenti puntate abbiamo ospitato: Glenn Cooper, Ildefonso Falcones e Joe R. Lansdale

* * *

Amélie Nothomb ci racconta “La nostalgia felice”

di Amélie Nothomb

Quando mi hanno proposto di fare un documentario sul mio ritorno in Giappone, nella primavera del 2012, sedici anni dopo averlo lasciato, ho accettato perché ero convinta che non avrebbe interessato nessuno. E invece Laureline Amanieux e Luca Chiari sono riusciti a trovare i finanziamenti per realizzarlo: così è nato Amélie Nothomb: une vie entre deux eaux.

Tornata da questo viaggio ho deciso di scriverne un libro.

Ho tentato di raccontare nel modo più preciso quello che era successo. Non ho mai raccontato fatti realmente accaduti con così poco intervallo di tempo tra la realtà e la scrittura, in questo era passato solo un mese di distanza. Nulla era ancora stato digerito, e per questo i ricordi sono così esatti.

Nell’urgenza della scrittura non dovevo però farmi prendere dal pathos. Ho constatato, visto che conosco bene la scrittura autobiografica, che più l’intervallo di tempo tra i fatti raccontati e il momento della scrittura è lungo, più si ha la tendenza a rendere tragici gli eventi, alla fine ci si fa sommergere dall’emozione e si finisce nel mito.

In questo libro ho descritto l’incontro con la mia tata Nishio-san, la mia madre giapponese, e quello con Rinri, il mio primo amore.

Il titolo, Nostalgia felice, è emblematico. “Natsukachii”, la nostalgia in giapponese, designa una nostalgia felice. In Giappone non è un ossimoro ma un’evidenza. Se la nostalgia non vi rende felice, vuol dire che non avete capito niente. In Giappone si servono di bei ricordi per raccogliere nuove energie…

(Riproduzione riservata)

© Amélie Nothomb

* * *

Un estratto del volume “La nostalgia felice” (Voland - traduzione di Monica Capuani)

Lasciamo Shukugawa in taxi: Nishio-san abita in un angolo di periferia privo di collegamenti. Lungo il tragitto, ci fermiamo per una pausa-pranzo. Incapace di inghiottire alcunché, parto alla ricerca di un fioraio dove compro un mazzo di rose.

– È un regalo? – domanda la negoziante.

Faccio segno di sì con la testa. Lei mi allestisce una confezione molto più notevole del povero mazzo di rose che contiene. Esco di lì con un cesto degno del funerale di una diva.

Il taxi ci accompagna fino a un condominio di case popolari alla periferia di Kobe. L’edificio è un po’ squallido. Siamo in anticipo di dieci minuti, passeggio nel cortile dove un gruppetto di bambini di quattro anni sta giocando a pallone. All’ora convenuta, salgo al sesto piano. Agli appartamenti si accede tramite un ballatoio esterno. Le porte sono misere. Accanto a una di loro, riconosco gli ideogrammi di Nishio. Con il cuore stretto, suono il campanello.

La porta si apre, e vedo apparire una signora molto anziana alta un metro e cinquanta. All’inizio ci guardiamo terrorizzate. Ritrovarsi è un fenomeno così complesso che andrebbe affrontato soltanto dopo un lungo apprendistato, oppure bisognerebbe semplicemente proibirli.

Lei pronuncia il mio nome, io pronuncio il suo. Al telefono, la voce mi era parsa giovane. Non ho più questa impressione. Mi invita a seguirla dando inizio a una litania di scuse. Mi tolgo le scarpe, i componenti della troupe fanno lo stesso. Raggiungiamo Nishio-san in un microscopico soggiorno. Mi ingiunge di sedermi su una sedia e lei resta in piedi accanto a me: le nostre teste sono finalmente alla stessa altezza.

Le mostro la telecamera e le domando se la disturba. Riprende la sua litania di scuse, io la capisco benissimo, provo una sensazione simile: siamo così imbarazzate che la presenza di una telecamera non cambia niente.

Le porgo il mazzo di rose che è grande quanto lei. Lo posa e lo scarta con gli stridenti ringraziamenti che le ho sempre sentito. Poi torna a mettersi in piedi davanti alla mia sedia e mi fissa.

– Somigli a tua madre – dice alla fine.

– Come stanno le sue figlie, Nishio-san?

– Non lo so.

– È diventata nonna?

– Le mie figlie hanno dei bambini ma io non li conosco. Le mie figlie si rifiutano di vedermi.

Questa notizia mi lascia di sasso. Nishio-san, donna povera e senza marito, ha lavorato sodo per tutta la vita per allevare le sue gemelle, ed ecco che loro la rifiutano. Aspetto una spiegazione che non arriva. So che non bisogna chiederla.

Quanto è invecchiata Nishio-san! Ha quasi ottant’anni. Ne dimostra ancora di più. Ha i capelli bianchi tagliati corti, indossa dei pantaloni e un grosso cardigan di lana. L’appartamento è piuttosto piacevole, e la cosa mi rassicura. Fino a questo momento non ci siamo sfiorate, né dette nulla che testimoni l’immensità dell’amore che ci lega. So che se non sarò io a fare uno sforzo, non ne usciremo.

Prendo il coraggio a due mani e le dico:

– Anch’io, Nishio-san, sono sua figlia. E sono venuta dall’Europa per vederla.

Il miracolo accade. Nishio-san scoppia in singhiozzi e mi prende tra le braccia. Io sono sempre seduta sulla sedia. Questa posizione non va bene, allora mi alzo e stringo la piccola donna fragile con tutta la mia forza.

Restiamo così per un tempo interminabile. Piango come avrei voluto piangere all’età di cinque anni, quando mi avevano strappato dalle sue braccia. È raro provare un sentimento tanto forte. Inclino la testa su quella di questa donna così importante ed è allora che avviene l’innominabile: a causa dei singhiozzi, il contenuto del mio naso cola sul cranio della mia sacrosanta madre. Spaventata all’idea che se ne sia accorta, le accarezzo i capelli con il palmo della mano per pulire il misfatto. In Giappone, un gesto così intimo è di una grossolanità folle, ma Nishio-san lo accetta perché mi vuole bene.

È una legge immutabile dell’universo: se ci è dato di provare un’emozione forte e nobile, un grottesco incidente arriva subito a rovinarla.

L’abbraccio si scioglie. Turbata, piombo sulla sedia. Nishio-san continua a non volersi sedere, sicuramente per mantenere il volto all’altezza del mio.

– Abita qui da molto tempo?

– Sì. Da quando il terremoto del 1995 ha distrutto la mia casa.

– A Kobe avete avuto ripercussioni dell’11 marzo 2011?

– Di cosa parli?

– Di Fukushima, sa.

– Non capisco.

Mi volto verso l’interprete, un ventiduenne di Tokyo, pregandolo di aiutarmi. Con dolcezza, spiega alla mia tata che sto alludendo al grande terremoto del’11 marzo 2011.

– Che intende? – domanda lei.

Il giovane e io ci scambiamo un rapido sguardo. Negli occhi di Yumeto, leggo: “Glielo dico?” Scuoto la testa per dire no.

Così, malgrado la presenza del televisore, Nishio-san non ha saputo nulla della catastrofe dell’anno scorso. La vecchiaia l’ha protetta. Non ritengo necessario metterla al corrente. Se il suo cervello non ha registrato la tragedia, forse la sua capacità di sofferenza era giunta a saturazione. A che scopo infliggere Fukushima a questa donna che ha vissuto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale?


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