Con l'horror ho avuto un rapporto molto ambivalente. E' un genere che adoro perché quando è ben sfruttato riesce ad appagarmi in una maniera indescrivibile, tanto che quando frequentavo l'Accedemia di Comics ho fatto molti soggetti a tema (mi avevano soprannominato MOH: Master Of Horror - anche se ho la vaga impressione che mi prendessero per il culo) e ne ho pure scritto un libro... però raramente trovo qualcosa che mi piaccia veramente. Ammetto anche che mi mancano alcuni vecchi classiconi che per pigrizia non sono mai andato a rimediare, anche perché rimango dell'idea che un'opera dell'orrore debba essere il riflesso delle paure del determinato periodo storico che si sta vivendo (poi ci sono casi come Videodrome che rimangono degli evergreen, o altri come It follows che sembrano appartenere più al passato nonostante siano stati fatti nel presente) e in certi casi mi sembra di essere troppo giovane per poterle capire appieno. Poi a malapena capisco quello che mi è successo l'altro ieri, figuriamoci questioni più importanti e stati d'animo di un'era che non ho mai vissuto. Ma resta il fatto che di horror moderni vedo davvero poche cose che mi piacciono, però il sapere di questa osannatissima serie antologica (come True detective: ogni stagione una storia a sé) mi aveva fatto ben sperare e ho deciso così di guardarmi la prima stagione.
La famiglia Harmon si trasferisce da Boston a Los Angeles, nella speranza che il vivere in un posto nuovo possa aiutarli a superare le recenti crisi. Lo psicoterapeuta Ben, il marito, ha tradito la moglie Vivien con una sua allieva, mentre la figlia Violet si sta dimostrando un'adolescente molto problematica. Peccato che la casa in cui stanno andando a vivere sia...
Una serie antologica che, ad ogni stagione, prende uno dei topoi dell'horror e lo sviscera alla sua maniera, Sulla carta le intenzioni erano queste, ma purtroppo della prelibatezza che ci sarebbe toccata è rimasta solo la cellulosa. Il mito eterno della casa infestata, che passa dal classicone di Raimi fino alla saga di Amytiville, ci passa davanti agli occhi con dodici puntate con cui ho avuto un rapporto abbastanza ambivalente. Perché è innegabile che ogni episodio abbia il suo vago fascino, altrimenti credo che l'avrei abbandonata dopo i primi tre, ma a fine visione sembra che troppe cose non tornino. Un po' come mangiare così tanta pizza (e io adoro la pizza) fino ad avere la nausea, nonostante quello di cui ti sei appena abbuffato sia il tuo piatto preferito. Questo perché al suo interno questo Murder house, pur non giostrandosi su nulla di innovativo o che stravolga il genere - ma al giorno d'oggi inventare qualcosa di nuovo se non impossibile è difficilissimo, e diciamolo, non propriamente necessario - mette troppe cose sul fuoco. Alcune raggiungono la giusta cottura, ma altre finiscono per bruciacchiarsi un poco. Troppi personaggi e troppe situazioni assurde per permettere di metabolizzarle tutte con il giusto tempo, non solo allo spettatore, ma anche ai vari mestieranti che si sono assecondati dietro la macchina da presa, perché ho davvero avuto l'impressione che certi passaggi siano stati trattati con eccessiva leggerezza proprio per non intralciare quello che sarebbe stato il minutaggio standard della singola puntata. E proprio sui vari mestieranti vorrei spendere un paio di paroline perché, diciamolo papale papale, alcune puntate sono davvero state realizzate alla cazzo. Errori di regia e montaggio a fiumi, stacchi inutili su alcuni dialoghi e, specie nella prima metà, un uso della fotografia aberrante, che non cambia di tonalità per enfatizzare i vari spazi temporali - cosa che mi ha confuso un attimo in alcuni passaggi, ammetto. E so che sono puntualizzazioni da cacacazzo, ma non ce la faccio a non badare a così tanti errori perpetrati da coloro che dovrebbero essere dei professionisti (a parte Tim Hunter, uno che sembra avere un suo piccolo spazio all'interno di ogni serie e uno dei pochi a portare a casa un buon risultato tecnico); è un po' come leggere un libro pieni di pò e a me mi, perché anche il cinema vuole una sua grammatica e qui in diversi punti, specie in quelli cruciali, non la si rispetta. "Eh, ma finché la storia è bella si può lasciar passare", diranno alcuni. Certo, è come se quello che ci ha costruito la casa ha fatto un casotto con le tubature del cesso però sui muri ha messo una bella carta da parati, se quella ha dei colori vivaci lasciamo passare. Qui però manco la storia brilla molto. Come ho detto prima, ci sono troppe cose, troppe tematiche che alla lunga finiscono per ingolfare tutto, facendo perdere fluidità alla storia e infarcendola alla fine di così tante cose che si rischia l'indigestione. Senza contare certe scelte davvero nonsense (un personaggio in un episodio afferma che i fantasmi non possono modificare il presente e tre puntate dopo ammazzano mezzo mondo come se nulla fosse?) e dei dialoghi che a tratti sembrano usciti direttamente da Scary movie ma, ahimé, sono in un contesto serio. Ciò che però mi ha davvero infastidito è l'incapacità dei realizzatori di puntare sui quegli aspetti veramente horror, perché ogni scena è fin troppo trattenuta e non dona mai quel vero senso di disagio che, con maggior consapevolezza e coraggio, avrebbe saputo dare. Quello che rimane è una storia che vorrebbe essere più di quello che è, e ne avrebbe tutto le carte in regola con quei personaggi che vogliono preservare un ideale effimero - sia esso la famiglia, la bellezza, la carriera, una finta serenità - eppure così in controtendenza coi loro comportamenti, ma che si azzoppa da sola cercando di strafare proprio dove non necessario. Un peccato. Perché i temi interessanti ci sono e si fanno sentire, ma sono circondati da così tanta mediocrità che quello che ci arriva alle orecchie è solo un flebile eco. Ma dagli autori di Glee c'era forse da aspettarsi il miracolo?
Nonostante tutto però c'è qualcosa che ti spinge a seguirla fino alla fine. E credo che sarà per via di questa forza misteriosa che varcherò le soglie del Briarcliff Asylum,