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Una volta uscito dalla sala dopo aver visto American Sniper, ultima fatica registica del buon vecchio Clint (Eastwood), basata sull’adattamento ad opera di Jason Hall dell’omonima autobiografia del cecchino dei Navy Seals Chris Kyle (scritta insieme a Scott McEwan e Jim De Felice), ho maturato la convinzione che il film debba essere valutato affrancandosi da qualsiasi ideologia o preconcetto e, conseguentemente, apprezzato come un’attenta, ma non propriamente partecipata, riflessione sulle assurde atrocità e sui tanti inspiegabili perché messi in atto da qualsivoglia conflitto, a partire dalle inevitabili conseguenze che andranno ad influire all’interno della sfera intima di ogni singolo individuo che vi abbia preso parte, da un lato come dall’altro, amici e nemici, vincitori e vinti. Ovviamente coinvolti poi, ove presenti, gli affetti familiari, minati nella loro interiorità e ragione di sussistenza, e comunque il reinserimento all’interno del contesto sociale d’appartenenza, evidenziando il labile confine fra il campo di battaglia e la vita quotidiana, fino ad arrivare ad una schizofrenica confluenza.
Bradley Cooper (Movieplayer)
Ho scritto “non propriamente partecipata” perché la sensazione primaria scaturita, e rimastami impressa, è che, rispetto ad altre opere da lui dirette, la regia di Eastwood appaia del tutto incline, forse volutamente, ad assecondare le linee guida di uno script intento a basare le proprie attrattive empatiche soprattutto sulla più che valida interpretazione di Bradley Cooper nei panni di Kyle, preferendo delineare una semplice visualizzazione della sua vita, segnata fin dall’infanzia dagli insegnamenti paterni, sia pratici (“fermare un cuore che batte”, durante la caccia), sia volti all’esistenziale, con la suddivisione degli esseri umani in pecore, lupi e cani da pastore, ruolo essenziale quest’ultimo per difendere le prime dai predatori, che sarà poi quello interpretato con estrema coerenza dall’apparentemente glaciale cecchino.
Sulle qualità della suddetta regia, almeno ad avviso di chi scrive, non si discute: piacevolmente classica, rigorosa, essenziale, coadiuvata da un ottimo montaggio (Joel Cox, Gary Roach), capace di rappresentare con crudo realismo (a partire dalla scena iniziale) il conflitto in Iraq cui Kyle, per complessivi quattro turni, prese parte.
Cooper e Siena Miller (Movieplayer)
Dalla citata zona di guerra si sviluppa un progressivo parallelismo con la vita familiare di Chris, soffermandosi in particolare sul matrimonio con Taya (Siena Miller, personaggio fin troppo stereotipato nella sua psicologia complessiva), descrivendone il tormentato rapporto di coppia, per quanto allietato dalla nascita di due bambini.
A predominare è la raffigurazione, attraverso tale parallelo e altri che si dipanano lungo l’iter narrativo (come quello con il fratello di Kyle, il quale ne seguirà le orme ma si rivelerà una sorta di anello debole del sistema, più pecora che cane da pastore, restando nell’ottica delle lezioni paterne, o con il contraltare Mustafà, cecchino della parte avversa), dell’essenzialità scabra e semplice della natura umana di fronte al pericolo, fronteggiando le varie avversità, in guerra e nella vita civile, in nome di un profondamente radicato senso del dovere.
Quest’ultimo consiste certo nel proteggere i propri compagni ad ogni costo, senza guardare in faccia nessuno, ma si ammanta anche di un ambiguo rimpianto, ravvisandosi un ideale di protezione dal contorto sentore universale, personificato da un patimento interiore scaturente non dalla quantità di nemici uccisi, ma da quanti dei propri compagni non sia stato possibile salvare.
Cooper e Clint Eastwood (Movieplayer)
Ne viene fuori il ritratto di una figura certo complessa, sempre rosa dal dubbio di non aver mai svolto sino in fondo quanto sente come il proprio compito nella vita, e che lo porterà, una volta conclusa la sua missione, a proseguirla occupandosi del reinserimento dei reduci di guerra.
Per quanto sia evidente la volontà di sgombrare il campo da ogni retorica, tale ritratto appare sviluppato, almeno a parere mio, con modalità schematicamente unilaterali, volte, in definitiva, a celebrare un eroe tout court, “senza se e senza ma”.
Emblematico al riguardo il finale, fra bandiere svolazzanti e plausi al guerriero morto, per quanto al suo interno si stagli l’idea che, anche all’interno di un sistema istituzionale idealizzato a misura del senso del dovere e dell’estremo sacrificio, la guerra e la morte dell’anima che ne deriva, non possono generare altro se non una catena infinita di lutti e dolore.
Un film foriero di molte sfaccettature, destinato a far discutere e suscitare le emozioni più diverse, dall’accettazione totale al categorico rifiuto, quindi cinematograficamente valido nel mettere in discussione quanto rappresentato.