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Amistad di Steven Spielberg. The battlefield of righteousness
Creato il 29 novembre 2011 da SpaceoddityStoria senza donne, o con una donna ancora bambina, Isabella II di Borbone, Amistad racconta una sedizione: non l'ammutinamento estatico di Aguirre, né quello nietzchiano di Cobra Verde, bensì la rivolta di schiavi contro i loro mercanti, contro i loro insensibili e, in definitiva ciechi, aguzzini. Introdotto da una sequenza durissima, straordinariamente efficace del nero su nero, in un gioco di ombre e lucentezze naturali, il film di Steven Spielberg affronta tutta una serie di questioni più io o meno centrali nel problema della schiavitù, così come veniva praticata in età coloniale.
Qualunque discorso sulle moderne forme di schiavitù, dunque, diventa posticcio: le condizioni di lavoro attuale nell'occidente e nel nord del mondo non sono così strutturalmente sovrapponibili. Non si tratta tanto dell'asservimento alla volontà, ma a un intero sistema politico e culturale, incapace di integrare, non delle persone, bensì la questione del giusto e dell'ingiusto, del morale e dell'immorale. O almeno a parole: perché la scelta o meno della schiavitù da parte dei cosiddetti stati del sud (con riferimento, com'è ovvio, agli USA) implica una scelta del principio, di qualunque principio, a scapito della vita umana e dei suoi valori. Ciò che è già una scelta di ordine culturale, morale, oltre che politico e commerciale.
In questo senso, mi pare proprio che Steven Spielberg indugi in una retorica filmica di un emotivismo tipicamente american style, per molti aspetti rischia di prendere il sopravvento e di avere un sapore falso o addirittura pretestuoso. Tuttavia, l'insistenza ugualmente americanissima, sulla situazione tribunalizia nel processo che viene intentato a questi schiavi sediziosi per ammutinamento e strage, il momento del giudizio, riesce quasi miracolosamente ad affrontare in modo laico, disincantato e profondo quello che viene chiamato, da varie parti, the heart of the matter. Che, poi, questo cuore del problema venga diversamente interpretato non è un problema: Amistad non si spaventa di volerlo raggiungere e prova a farlo, né si può negare che Spielberg si impegni a farlo, soprattutto quando c'è una storia solida alla base (basti pensare al più tardo Minority Report)
Così, il discorso letto dalla giovanissima Isabella II. dallo spaventoso sapore di un moderno imperialismo dispotico e conservatore ha un sapore amaro roboante, molto diverso da - eppure simmetrico a - quello che da poco abbiamo riascoltato nel finale de Il discorso del re. Sinistri risuonano la propaganda probellica del nemico crudele e il suo umanesimo a orologeria, pronto a scoppiare tra le mani di chi ne ignora il millenario (e millenaristico) cinismo:
Speak the words of humaneness for the mass of your citizens, but hold tightly to the power that protects them. That power, of course, is their wealth.
Dopo molte reticenze, scende in campo il presidente John Quincy Adams (Anthony Hopkins), che dimostra di sapersi destreggiare con quella finezza che gli conferisce il cinema - e non i libri di storia - tra le più diverse motivazioni. Quelle giuridiche così ben esposte dal giovane e superbo avv. Roger Baldwin (Matthew McConaughey) in risposta al saccente livore di Holabird (di un eccellente e inedito Pete Postlethwaite; quelle storiche, prefigurando i contorni di quella guerra civile che lui non avrebbe mai visto. Ragioni che avvincono giudici, giuria e perfino lo stesso Cinque (Djimon Hounsou), the matter of fact, l'uomo attorno a cui ruota la sedizione di schiavi e la storia che Spielberg racconta: l'uomo che comincia a capire, a comunicare, a dire cos'era successo su quella maledetta nave Amistad, a profetizza un mondo diverso. Purtroppo, un mondo costretto sempre a richiamare il mito della sua fondazione per ricordarsi di andare avanti sulla strada dei padri fondatori, senza perdersi tra i cavilli della legge del potere.
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