La Spedizione di Alessandro, dello storico greco Arriano, è il resoconto più antico che abbiamo al riguardo della spedizione che Alessandro Magno intraprese alla conquista dell'impero Persiano.
Scritto nel II secolo, esso è essenzialmente una cronaca, pertanto priva di ogni introspezione: è una raccolta di eventi condotta senza cercare di spiegar i motivi degli stessi, e come tale va tenuta sommamente in considerazione la sua oggettività.
Contemporaneamente ai fatti narrati nel mio romanzo, sulla sponda orientale del Mediterraneo un giovane condottiero educato da un filosofo (nientemeno che Aristotele) piegava, in battaglie che hanno fatto la storia, il più grande impero dell'epoca.
Uno dei personaggi principali del mio romanzo ha il suo passato legato al macedone, ed è pertanto ovvio che abbia dovuto documentarmi su cosa possa essergli storicamente accaduto per poi presentarlo dal suo proprio punto di vista.
I passaggi dell'"Anabasis" ai quali ho fatto riferimento sono due paragrafi del primo tomo
Arriano, Anabasis Alexandri, I, 8 - La Caduta di Tebe
Ma Tolomeo, figlio di Lago, ci dice che Perdicca, che era stato posto all'avanguardia dell'accampamento con la sua brigata, e non era lontano dalla palizzata del nemico, non attese il segnale di Alessandro per cominciare la battaglia, ma di sua propria iniziativa fu il primo ad assalire la palizzata e, avendo aperto una breccia in essa, si imbatté nell'avanguardia tebana.
Amynta, figlio di Andromene, seguì Perdicca, giacché era stato posto accanto a quello. Anche questo generale, di propria iniziativa, guidò la propria brigata in avanti quando vide che Perdicca era avanzato all'interno della staccionata.
Quando Alessandro vide ciò, guidò il resto del suo esercito, temendo che senza aiuto essi potessero essere intercettati dai tebani e correre il rischo di essere distrutti.
Ordinò agli arcieri ed agli Agrianiani di correre all'interno della palizzata, ma trattenne ancora le guardie e le truppe dotate di scudo. Allora sì che Perdicca, dopo essersi fatto strada oltre la seconda palizzata, cadde ferito da un dardo, e fu riportato gravemente ferito all'accampamento, dove la sua ferita fu curata con difficoltà.
Comunque gli uomini di Perdicca, insieme agli arcieri di Alessandro, si imbatterono nei tebani e li chiusero nella profonda via che menava al tempio di Eracle, e li seguirono nella loro ritirata fino al tempio stesso.
I tebani, dopo aver fatto dietro-front, avanzarono di nuovo da quella posizione con un grido, e misero i macedoni in fuga. Eurybota il cretese, il capitano degli arcieri, cadde con circa settanta dei suoi uomini, ma gli altri fuggirono verso la guardia macedone e le truppe dotate di scudo.
Ora, quando Alessandro vide che i suoi propri uomini erano in fuga, e che i Tebani avevano rotto i loro ranghi per inseguirli, li attaccò con la sua falange approntata in buon ordine, e li respinse all'interno dei cancelli. I Tebani fuggirono in preda a tale panico che, mentre venivano ricacciati in città attraverso le porte, essi non abbero il tempo di chiuderle, perché tutti i macedoni, che erano a ridosso dei fuggitivi, si precipitarono con loro all'interno delle fortificazioni, giacché anche le mura erano prive di difensori a causa dei numerosi picchetti davanti a loro.
Quando i Macedoni entrarono nella Rocca Cadmea, alcuni di loro marciarono fuori di esso, in compagnia di coloro che tenevano la fortezza, accanto al tempio di Anfione nella parte opposta della città, ma altri attraversando le mura, che erano ora nelle mani di coloro che erano corsi dietro ai fuggitivi, avanzarono di corsa nella piazza del mercato. Quelli dei Tebani che erano stati portati di fronte al tempio di Anfione mantennero la posizione per un breve tempo, ma quando i macedoni premettero duramente su di loro da tutte le direzioni, con Alessandro che era ora in un posto ora in un altro, la loro cavalleria attraversò in fretta e furia la città e uscì nella pianura, e la loro fanteria fuggì per la propria salvezza come ogni uomo ritenne possibile.
Poi in effetti i Tebani, che non si difendevano più, furono uccisi, non tanto dai Macedoni quanto dai Focesi, i Plateesi ed altri Beoti, che col massacro indiscriminato sfogarono la loro rabbia contro di loro. Alcuni furono anche attaccati nelle case (alcuni dei quali tornarono a difendersi), e altri mentre supplicavano la protezione degli dèi nei templi, nemmeno le donne e i bambini vennero risparmiati.
Arriano, Anabasis Alexandri, I, 9 - La Distruzione di Tebe
[...]
Ma siccome i Tebani avevano effettuato la loro rivolta improvvisamente e senza alcuna considerazione precedente, essendo stata la conquista della città realizzata in un tempo così breve e senza difficoltà da parte degli assalitori, essendoci stata grande carneficina, come era naturale, per essere stata fatta da uomini della stessa razza che stavano covando la loro vendetta per antiche ferite, la totale resa in schiavitù di una città che eccelleva tra le Greche a quel tempo sia per potenza che per fama guerriera, tutto ciò fu attribuito non senza probabilità all'ira vendicatrice delle divinità.
[...]
La sistemazione degli affari tebani fu affidata da Alessandro agli alleati che avevano preso parte all'azione. Essi decisero di occupare la (Rocca) Cadmea con un presidio, di radere al suolo la città, di distribuire tra loro tutto il territorio, tranne ciò che era dedicato agli dei, e di vendere in schiavitù le donne e i bambini, e quanti maschi fossero sopravvissuti, ad eccezione di quelli che erano sacerdoti o sacerdotesse, e coloro che erano legati a Filippo o Alessandro da vincoli di ospitalità o erano stati soggetti dei macedoni. Si dice che Alessandro abbia preservato la casa dei discendenti di Pindaro il poeta, per rispetto alla sua memoria. In aggiunta a queste cose, gli alleati decretarono che Orcomeno e Platea avrebbero dovuto essere ricostruite e fortificate.