CJR, Columbia University Review, ha rilasciato ieri un rapporto di analisi dei modelli di business dell’informazione digitale.
Lo studio ha ottenuto l’attenzione di esperti ed osservatori del settore. Tra i diversi interventi e commenti si segnalano in particolare quelli realizzati da: Poynter, Brian Solis, eMedia Vitals , GigaOM e Felix Salomon.
Come suggerisce il titolo, “The Story So Far: What We Know About the Business of Digital Journalism”, il rapporto effettua una fotografia dello sviluppo dell’informazione nell’ambiente digitale nell’ultimo quinquennio. Utile e completo riepilogo della situazione per i meno informati sul quadro complessivo dei modelli di business del giornalismo 2.0, fornisce qualche dato, e relativi spunti di riflessione al riguardo, interessante anche per gli esperti del settore.
In sintesi.
Si evidenzia come già nel 2005 Poynter avesse segnalato che, anche con tassi di crescita ottimistici del 33% all’anno, i ricavi del digitale avrebbero impiegato ben 14 anni per raggiungere quelli della carta stampata. E’ chiaro che non essendoci stato questo tasso di crescita ed in funzione dell’abbattimento, sin ora, delle tariffe ai quali vengono venduti gli spazi pubblicitari online, il periodo si dilata ulteriormente.
Vengono confermati i dati evidenziati anche ieri nel rapporto pubblicato da Pew Research Center che segnalano come “lo zoccolo” duro, la base di lettori fedeli ad una specifica testata online sia numericamente trascurabile, pur dando luogo ad un numero di pagine viste significativo, rispetto alla maggioranza degli utenti occasionali. Esiste complessivamente dunque, come ipotizzavo ieri, un problema di trattenimento e di fidelizzazione, e perciò nel suo insieme, di coinvolgimento dei lettori. E’ evidente che su queste basi la possibilità di far pagare i lettori resta estremamente remota, come coinfermano, ancora una volta, i dati della rilevazione di Ad Week – Harris Interactive del mese di marzo.
L’andamento del mix dei ricavi del New York Times, con un progressivo spostamento verso le vendite e gli abbonamenti del giornale, sembrerebbero confermare le ipotesi sulle reali motivazioni del “soft paywall” recentemente realizzato dal celebre quotidiano statunitense.
Gli aggregatori qualificati, in termini di non parassitismo ma di selezione e commento all’informazione prodotta da altri, quali, uno per tutti, l’Huffington Post, rappresentano una realtà, un riferimento importante nell’ecosistema dell’informazione 2.0.
Alle attuali tariffe pubblicitarie, pochi ottengono ricavi significativi dal digitale. E’ una situazione che non migliora neppure per chi offre informazione esclusivamente online. A tale proposito di grande interesse per sintesi e chiarezza la tabella riepilogativa, estratta da documenti filtrati in maniera non ufficiale dall’azienda, dei punti di break even per AOL.
Le conclusioni del rapporto forniscono dei suggerimenti generici senza dare indicazioni concrete su quale potrebbe essere la strada da seguire, evidenziando come si sia ancora in una situazione di incertezza, di “work in progress” e sperimentazione.
Tornano così alla mente le parole di Jacob Nielsen nel 1998: “The basic point about the Web is that it is not an advertising medium, the Web is not a selling medium, it is a buying medium. It is user-controlled.”. Per il passaggio al digitale dell’editoria è una profezia che, ad oggi, pare confermata.