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Anatomia di un romanzo. Cattivissimo se

Da Patriziabi (aspassotrailibri) @openars_libri

Cattivissimo se (dello scrittore Gianpietro Scalia)

E’ risaputo: molto spesso le regole esistono affinchè sia possibile non rispettarle, per quanto siamo tutti consepevoli che il mancato rispetto delle regole in certe situazioni potrebbe condurre verso enormi drammi. Di solito in questi casi si tende a inasprire la regola, ma il dramma, quando accade, è sempre ugualmente disastroso.
In certe situazioni, inoltre, sappiamo tutti molto bene che appesantire una regola ridicolizza il linguaggio e sminuisce il valore della regola stessa.
L’esempio più caratteristico che si utilizza solitamente a riguardo è l’uso del termine vietato o assolutamente vietato, ma ce ne sarebbero chissà quanti altri. Io, per esempio, li colleziono e ne ho pagine piene.
In letteratura disobbedire a una regola non crea per fortuna alcuna catastrofe, ma a lungo andare tende a sminuire la ricchezza del linguaggio, apportando una specie di imbarbarimento nelle nostre espressioni quotidiane. E’ infatti sufficiente ascoltare dieci minuti di una banale conversazione per comprendere quanto si stia degradando il linguaggio in questo senso.
Siamo fondamentalmente più volgari. Dispiace dirlo, ma purtroppo è questa la realtà.
Personalmente, per quanto possa contare la mia opinione, penso che la colpa principale non sia solo della televisione, ma anche di un certo tipo di letteratura, che suo malgrado si è asservita al linguaggio televisivo.
Prendiamo come esempio il se col congiuntivo: apparentemente una delle regole più difficili della nostra grammatica, almeno a quanto si sente e si legge di frequente.
Cosa fare quando una regola è difficile?
Ci sarebbero varie strade da percorrere, per quanto la più banale e scontata sia quella di apprendere la regola.
Io (ironicamente) ne proporrei una alternativa: aboliamo la regola.
Perchè ostinarsi a inorridire dinnanzi alla definizione “se avrebbe”?
Chiamiamo un paio di professoroni a qualche tavola rotonda e lasciamogli spiegare che “se avrebbe” si puó dire tranquillamente, perchè in fondo chi ci ascolta capisce ugualmente il senso del discorso che avremmo voluto sviluppare, e quindi non è necessario perdersi in simili sottigliezze.
Perchè allora continuare a scervellarci per capire quale forma verbale deve seguire il se?
Congiuntivo. Condizionale. Futuro. In fondo sono particolari insignificanti.
Eppure non è così. Non sono particolari insignificanti e a volersi divertire un pó è facile comprenderlo.

Prendiamo una frase qualsiasi come esempio:

Se hai coraggio ti tuffi dagli scogli.

Si puó dire? O si dovrebbe dire “se avessi coraggio ti tufferesti dagli scogli”.

E’ un problema da poco, a confronto dei problemi che dobbiamo affrontare quotidianamente: un problema che probabilmente interesserà a pochissime persone.
Perchè discuterne allora? Ma perchè il linguaggio è importante e chiarisce le nostre intenzioni molto meglio se adoperato con attenzione. Infatti, secondo un certo tipo di logica, “se hai coraggio ti butti dagli scogli” si puó dire, anzi si dovrebbe dire, ma solo quando la domanda è retorica e implica che tu hai realmente coraggio e ti butterai certamente dagli scogli, ma sono io a dubitarne.
Discorso un pó difficile da esprimere, ma semplicissimo da applicare.
Mentre leggo un romanzo e arrivo a un passaggio come quello menzionato sopra, se il linguaggio fosse stato adoperato correttamente, in base all’espressione utilizzata cambio la mia percezione, quindi entro più precisamente dentro la scena.
Leggendo “se hai coraggio…” intuisco che il coraggio c’è, e sicuramente ti butterai dagli scogli. Leggendo invece “se avessi coraggio…” dubito di ció, e attendo l’evolversi della situazione con incertezza.

Quindi, riassumendo, “se hai coraggio…” in certe occasioni si puó dire?

Io penso proprio di no! Secondo me rimane ugualmente un errore, perchè se volessimo utilizzare il verbo al presente allora dovremmo eliminare il se o formulare diversamente la frase:

Hai coraggio? Buttati dagli scogli.

Leggendo con questa maledetta deformazione che mi si è sviluppata nel tempo, mi rendo conto che molto spesso non è la forma verbale ad essere sbagliata, ma lo spropositato uso del “se” (il quale, insieme al “come”, infarcisce la nostra narrativa alla stessa maniera con la quale la maionese infarcisce una portata che altrimenti risulterebbe insipida).
Ho chiesto un giorno a un giornalista per quale ragione gli articoli sono pieni di errori simili, lui mi ha risposto che è conseguenza della fretta. Ma la fretta non dovrebbe determinare un errore grammaticale, magari un refuso, certamente non sempre lo stesso errore, altrimenti vorrebbe dire che non si sa scrivere e la grammatica, per chi scrive, è importante come la matematica per chi fa dei calcoli.

Nelle case editrici esiste una figura, quella del correttore di bozze, che dovrebbe coadiuvare l’autore nel rendere l’aspetto grammaticale quantomeno perfetto.
Ecco, oggi che si discute tanto tra autopubblicazione e pubblicazione classica, dove sta la differenza quando alla fine si incontrano gli stessi errori grammaticali?
Nella storia? Ma la storia è soggettiva, puó piacere o non piacere indipendentemente dalla scelta editoriale. L’esposizione, invece, la sintesi, la correttezza grammaticale, la costruzione temporale, dovrebbero essere il fiore all’occhiello di una casa editrice.
Quando un prodotto commerciale è difettoso pretendiamo la sostituzione del prodotto. Poichè il libro viene considerato un prodotto commerciale (non nel senso dei contenuti, ma nel senso dell’indotto che determina), allora perchè accettare una lettura distorta e frastornata dagli errori.
Eppure a volere analizzare la questione con un pó di ironia si potrebbe concludere che la colpa non è nè dell’autore e nemmeno della casa editrice, ma di questo cattivo se, il quale sembra voglia divertirsi a complicarci la vita, ridicolizzandoci dinnanzi a chi ci ascolta.
Prendendo quindi in prestito una frase adoperata con ironia dai comici, si potrebbe affermare che il “se” è bastardo dentro: proprio una carogna che gode a metterci a disagio. Infatti, neanche a farlo apposta, anche quando adoperato nella forma accentata, inteso come “sè stesso”, determina grande confusione.
E’ una delle pochissime espressioni che è riuscita a fregare persino la cultura popolare sopravvivendo al tempo senza che alcuno lo mettesse in discussione.
Tutti infatti conosciamo il detto “se son rose fioriranno”. Sarà mai venuto a qualcuno il dubbio che in realtà si dovrebbe dire “se fossero rose fiorirebbero”?

La battaglia contro il “se“, ammettiamolo francamente, è una battaglia persa in partenza.

Infatti, a metà circa di questo articolo c’è una frase con un “se” seguito da una declinazione verbale errata, ma probabilmente sarà sfuggito a molti tra coloro che hanno letto.

Cosa facciamo, allora? Cambiamo la regola?
E “se” invece provassimo ad adoperarlo un pó meno, e con maggiore cognizione di causa?
Sono convinto che la lettura ne guadagnerebbe, e a lungo andare ne guadagnerebbe di conseguenza il nostro imbarbarimento linguistico.

P.S. La frase sbagliata era la seguente:

“Ma perchè il linguaggio è importante e chiarisce le nostre intenzioni molto meglio se adoperato con attenzione.”

PP.SS. Sono così giunto al terzo articolo. Una bella soddisfazione per me. Grazie.


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