E’ arrivata anche sui media italiani l’eco della questione Tim Hunt, ossia il premio Nobel per la medicina che alla conferenza mondiale dei giornalisti scientifici a Seul, pensando probabilmente di risultare spiritoso, ha detto “Let me tell you about my trouble with girls. Three things happen when they are in the lab: you fall in love with them, they fall in love with you, and when you criticise them they cry.” (Lasciatemi parlare dei miei problemi con le donne. Quando sono nei laboratori accadono tre cose: ti innamori di loro, loro si innamorano di te, e quando le critichi loro piangono). A causa di questo discorsetto, seguito dall’auspicio di poter creare laboratori separati per uomini e per donne (il che forse chiariva il tono spiritoso del nostro Nobel), Tim Hunt ha sollevato così tante polemiche ed accuse di sessismo che si è sentito in dovere di lasciare il suo posto da professore all’University College of London.
Credo che sia piuttosto inutile discutere sull’esito delle frasi pronunciate da Hunt (molte scienziate e giornaliste hanno considerato le sue dimissioni un atto non dovuto ed un enorme danno al mondo scientifico…!), mentre mi piacerebbe riflettere un pochino sulle sue osservazioni. Probabilmente il tono dell’Hunt alla conferenza mondiale dei giornalisti scientifici non voleva discostarsi troppo dal tono dell’Hunt nelle discussioni da bar ( o meglio da pub), come osserva con acume Massimo Gramellini. Più probabilmente, considerata la mia esperienza, Tim Hunt ha ingenuamente e molto superficialmente descritto cosa avviene in molti laboratori di ricerca, senza chiedersi però se quella descrizione avrebbe suscitato la stessa ilarità che evidentemente aveva suscitato in lui per lunghi anni. Esaminiamo un punto alla volta: cosa accade quando una donna entra in un laboratorio:
1. Ti innamori di loro. Chiaro: i ricercatori trascorrono molto tempo nei laboratori, nei loro uffici a scrivere relazioni sul lavoro svolto, ad analizzare dati. Quindi la compresenza di ricercatori di sesso femminile fa scoccare l’inevitabile scintilla. Ma attenti: la scintilla scocca nel ricercatore di sesso maschile per prima, ricercatore che in sintonia con il suo genere non può resistere all’attrazione (qui ci sarebbe anche da chiedersi: non ci dovrebbe essere qualche remora ad innamorarsi di una collega o di qualcuno a sè subordinato, quali studentesse, dottorande o postdoc?) e placidamente si dichiara innamorato.
2. Si innamorano di te. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, si direbbe dalle nostre parti e così evidentemente anche in terre britanniche. Fin qui non mi sembra ci sia niente di grave, a parte il fatto che considerando come si distribuiscono le popolazioni maschili e femminili nelle varie popolazioni accademiche (le donne diminuiscono drasticamente in numero a partire dal dottorato fino alle posizioni di professore, dove la stragrande maggioranza di posti è occupata dagli uomini) è statisticamente molto probabile che oltre ad innamorarsi fra loro postdoc e dottorandi (il che potrebbe creare una comunione d’intenti positiva anche ai fini professionali), ci possano essere professori e dottorande/postdoc che raggiungano l’idillio amoroso. Sebbene la visione di professori un po’ avanti con gli anni “innamorati” (e ricambiati) di fanciulle con 20-30 anni di meno che bazzicano i loro laboratori non mi turbi affatto dal punto di vista morale, dal punto di vista della mia etica lavorativa questa situazione porta dei rischi da non sottovalutare. Nell’ambiente della ricerca si lavora molto in squadra, molto “sul campo”, molto gomito a gomito fra laboratori e preparazione del materiale.
Allora, mettevi nei panni di una dottoranda che assiste ai flirt nel proprio laboratorio, che se Tim Hunt describe come realtà quotidiana forse potremmo anche credergli. Fatto? Come vi sentite con il camice addosso? Bene, ora guardatevi attorno. Se al vostro fianco ci sono due coetanei che “amoreggiano” durante il lavoro, farete loro qualche battuta, vi scoccerete se perdono tempo, ma tutto sommato non daranno più di tanto fastidio, sono due colleghi che si sono piaciuti…amen. Se a lavorare sul bancone a fianco al vostro c’è invece la collega che ricambia l’innamoramento in cui è caduto per lei il vostro capo, la cosa vi preoccupa. Perchè ai vostri problemi lavorativi, il capo non presterà la stessa attenzione che presterà ai suoi. Ed anche se il vostro capo fosse una persona integerrima e precisa, vi verrà in mente che nel tempo che la vostra collega ed il vostro capo trascorreranno in solitudine, discuteranno anche del lavoro e lei inevitabilmente farà più progressi di voi e un giorno, quando sarete soggetti ad una valutazione comparativa, non sarete giudicati in maniera obiettiva. Tutte queste potrebbero essere anche paure infondate, ma considero piuttosto probabile che costituiranno un ostacolo importante nel vostro lavoro. Forse tutti questi problemi si sarebbero potuti evitare separando laboratori per uomini e quelli per donne?! Direi che bastava un po’ più di etica professionale.
3. Quando le critichi, loro piangono. Ebbene sì, anche questo è vero, anche le scienziate piangono. E mi viene da pensare: benedette siano le loro lacrime, perchè provano che le donne che lavorano in simili ambiti non sono rocce prive di sentimenti! Eppure. Eppure c’è da precisare che assolutamente le donne NON piangono sempre di fronte alle critiche, cosa che questa frase smilza potrebbe indurre a pensare. Le donne piuttosto piangono più spesso degli uomini perchè in certi momenti si sentono più vulnerabili, ma anche e soprattutto perchè abitualmente hanno un senso del dovere e del dover raggiungere risultati, più alti rispetto ai colleghi maschi, e se non ce la fanno, se non si sentono adeguate al lavoro che erano stato loro commissionato, può capitare che piangano.
L’altra faccia della medaglia riguarda però chi fa piangere le donne. La prima volta nella mia carriera da fisico che ho pianto (ma non in pubblico, preciso!) è stata quando il docente di FISICA I, dopo uno scritto da 24/30, mi bocciò all’orale dicendomi che dovevo ripensare alle mie scelte e cambiare corso di studi. Piansi non tanto perchè venni bocciata, ma perchè quando le risposte che diedi all’orale non piacquero al docente e chiesi spiegazioni, lui non me le diede. Piansi perchè io secondo il docente non ero adatta al corso di laurea in fisica, mentre i miei colleghi maschi il cui esame ebbe esito simile al mio a suo parere semplicemente non avevano studiato. Quel pianto servì ad esaurire la mia rabbia del momento, e forse anche a farmi laureare con il massimo dei voti perchè volevo dimostrare a me stessa che nessuno poteva con superficialità dichiararmi “non adatta”. Nelle mie esperienze successive sono stata molto criticata, a volte a scopi costruttivi, a volte con superficialità, a volte con aggressività. Quel che mi lascia perplessa è che sebbene gli uomini ci considerino “creature fragili”, facili al pianto e dunque emotivamente instabili, le critiche che ho ricevuto dagli uomini o che ho visto indirizzare a colleghe non sono state sempre pacate, anzi a volte mi sono sembrate più rudi rispetto a quelle che gli uomini si facevano fra loro. Quindi…forse non piangiamo abbastanza.
Il buon Hunt, accantonati i panni del Prof. per il troppo suscitato clamore, potrebbe riflettere su quanto detto e provare a pensare: “E se le ragazze che hanno frequentato i miei laboratori avessero deliberatamente deciso di innamorarsi e piangere solo quando e se faceva loro comodo?”. Temo che la risposta potrebbe indurlo a preferire ancora una volta gli uomini per compagni di ricerca!