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Spielberg con Lincoln ha girato il suo ennesimo film fondamentale sulla storia presente e passata degli Stati Uniti, ma non per questo un film imprescindibile in sé o sorprendente rispetto agli altri. Anzi, a conti fatti l'operazione dice del suo autore e della sua idea di Storia raccontata dal cinema (di come la vede lui in persona, mentre a casa sua legge Reid Mitchell, importa poco) molto meno del precedente War Horse, che era un'operazione ludica, sentimentale, puramente cinematografica, con però Spielberg metteva a confronto lo sguardo del linguaggio classico con l'orrore della Storia e la forza del sentimento.
La retorica classica dello svelamento, l'agnizione del ricongiungimento e il mito del ritorno a casa, in War Horse erano affrontati in modo molto più spielberghiano di quanto non avvenga nello splendido, oscuro, ma anche inerme Lincoln. I due film funzionano nello stesso modo, ma in Lincoln Spielberg gioca a fare il cinema più alto, più mediato, nascondendo il personaggio storico dietro Day Lewis e invitando lo spettatore a scovare la verità del passato; provando a smitizzarne il mito pubblico con la quotidianità del privato, ma cedendo al fascino della scena madre; presagendo l'incontro con la morte e sottolineandolo retoricamente nello sguardo del servitore nero che sa, che capisce, che coglie i segni della Storia, e si prepara perciò a camminare nel mondo tutto solo, ma guidato dall'andatura sgraziata eppure saldissima del Presidente più grande di tutti.
Tutto questo è Spielberg allo stato puro, è la poetica inconfondibile di una grande regista: ma a differenza di War Horse, non è raccontata dal sogno, dal cinema classico, dai suoi colori e dai suoi sentimenti impudici, bensì dall'agiografica e dalla ricerca troppo consapevole del film secolare e scolpito nel marmo. Per quel che mi riguarda così è anche troppo.
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