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Ancora, di Hakan Günday

Creato il 27 gennaio 2016 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

Hakan Günday è nato a Rodi nel 1976, ma vive a Istanbul. “Ancora” ha vinto nel 2015 il premio Médicis in Francia come miglior romanzo straniero. Arriva ora in Italia, nella traduzione di Fulvio Bertuccelli, edito da Marcos y Marcos.

Leggiamo, ormai da mesi,  titoli sui quotidiani sui migranti, ascoltiamo giornalisti e politici e commentatori parlare con tono grave del dramma dell’immigrazione. Eppure, quanto ne sappiamo? Il dramma vero è che sui quotidiani, nei talk show -superata l’onda enorme e fasulla creata da un corpicino su una spiaggia- i migranti sono diventati un numero. Se sopravvivono sono un problema politico, se muoiono diventano un dato statistico. Appiattiti, senza identità, senza storia. Ancòra rende, attraverso la narrazione di fantasia, corpo e visibilità agli uomini nascosti dalle cifre, nuove vittime -matricolate e private del nome- della guerra, dell’ingiustizia e delle disparità sociali. Un consiglio: se cercate un romanzo d’evasione, non leggete questo libro. Se la pensate come Salvini, forse vi farebbe bene leggerlo (ma non ci giurerei). Se volete riflettere, anche a costo di beccarvi un bel pugno, una gragnuola di pugni nello stomaco, dovete assolutamente leggerlo.

Il primo colpo basso arriva dal titolo: Daha,ancòra” in turco, è il passepartout per la sopravvivenza per i clandestini: ancòra pane, ancòra acqua, in quella parola, l’unica conosciuta, in quelle quattro lettere pronunciate come una domanda, è racchiuso il dramma. Immaginate di trovarvi, clandestini in fuga, in una terra straniera, la vostra esistenza, quella dei vostri figli, appese alla volontà di stranieri che parlano una lingua che non comprendete. Daha,ancòra”. Ancòra. Dal nostro divano sembra impossibile; dalle nostre auto, inimmaginabile.

Attraverso gli occhi di Gazâ, un bambino che diventa -suo malgrado dapprima, poi con sempre maggiore convinzione e crudeltà- trafficante di carne umana, possiamo non dico comprendere del tutto, ma avvicinarci anche di un passo solo alla vita, alla sofferenza e alla morte di coloro che sono in fuga. Il processo di mutazione profonda avviene su due piani: quello che il protagonista perde in umanità, lo recupera il lettore in empatia. Nella narrazione, la sofferenza è condivisa: soffre lo spettatore che assiste impotente alla violenza che il ragazzo subisce e che fa subire ai profughi, soffre Gazâ nel non trovare una via di uscita all’orrore che lo impregna come una colla sempre più densa e che, pervertendone la natura, diventa la sua unica modalità di esistenza.  All’inizio della storia Gazâ ha 9 anni, è orfano di una madre che ha tentato di soffocarlo alla nascita, ma nonostante questo è uno scolaro brillante, che potrebbe diventare la gloria del suo villaggio. Invece il padre lo scardina senza pietà dal suo destino pacifico, costringendolo ad occuparsi dei clandestini che “ospita” in una cisterna. Sopravvivere, nonostante tutto. Ancòra e sempre. Il bambino assorbe la lezione impostagli dal padre autoritario e brutale, e la violenza si insinua in lui come una metastasi, inarrestabile. Ancòra. E come potrebbe un bambino scegliere tra il bene e il male, se è il suo stesso genitore a indicargli la strada? Aguzzino e profughi, al di là delle differenze di vita e intenti, diventano vittime del Male, il male profondo e durevole che sembra permeare l’umanità tutta. Un Male attorno al quale è semplice aggregarsi: una volta stabilito un nemico comune, è più naturale “odiare insieme” che “amare insieme”, più normale escludere che comprendere, e molto più facile uccidere che aiutare.

Non è necessaria una speranza o uno scopo, per restare in vita. Basta sapere di dover morire. Sei in vita perché sei in pericolo. Sei in vita perché muori ogni secondo.

Quando, per negligenza e pigrizia, il bambino causa la morte di Cuma, giovane afgano clandestino, questi diventa la voce della sua coscienza, refolo di umanità residua in una esistenza avvelenata. Nonostante questa guida, e mentre i migranti accettano passivamente il loro destino, spinti dalla volontà di salvarsi ad ogni costo, il ragazzo “sfoga” frustrazioni, rabbia e ingegno represso su di loro, facendo della cisterna dove li tiene prigionieri un laboratorio di sociologia e antropologia applicata. In una sorta di delirio di onnipotenza, attraverso i suoi esperimenti sempre più crudeli, Gazâ scopre che laddove la democrazia non ha radici profonde e solide, persino in una situazione soffocante e transitoria come una prigione, la dittatura prende il sopravvento con facilità. Al di là del racconto della vita guasta di Gazâ, di molte vite distorte e rovinate dal Male, l’autore riflette sull’autoritarismo, e indica a noi occidentali la situazione del suo stesso Paese, decantato ponte tra l’Oriente scalzo e il ben pasciuto Occidente, ora sommerso dalla corruzione, dalla ricerca del profitto e da una dittatura invisibile ma profondamente installata.

E alla fine, tutto ciò che può salvarci, tutto ciò che di umano resta, è compreso in quella parola. Ancòra.

Ancòra pane.


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