Torno volentieri sulla traduzione e i suoi problemi, attività che ritengo eminentemente artistica e in continua evoluzione. Stimolanti i commenti di Alfredo Riponi e Marco Ercolani al post precedente. Entrambi mi sembrano richiamare la necessità di salvaguardare, rispetto alla forma, la primazia del "contenuto", intendendo questo in senso lato, di significato, intenzione, sostanza eidetica, progetto. Certo, le cose evolvono, e il linguaggio tra queste. Ed ecco che esce una antologia di poesie di Emily Dickinson nella nuova versione di Silvia Bre ("Centoquattro poesie", Einaudi), su cui ha scritto Nadia Fusini su La Repubblica (alcuni estratti qui di seguito), ponendo appunto l'accento sulla doppia azione della traduttrice (nonchè poetessa) di svecchiamento e alleggerimento del linguaggio. Alleggerimento che non è forse tanto quello di cui discorreva Calvino nelle sue lezioni, quanto la consapevolezza delle peculiarità della lingua d'arrivo in relazione al significato, anche intertestuale, dell'opera in traduzione. Poi naturalmente ciascuno ci mette del suo, del proprio stile, del proprio sentire, come - tanto per fare un esempio - la traduzione di Sannelli (v. QUI o QUI o anche QUI) che tanto corrisponde a quel che di ieratico insito nella poesia della Dickinson. Per qualche altro esempio di traduzione rimando a questo post dell'amica Cristiana Vettori su PisaNotizie (v. QUI). I testi originali di riferimento possono invece essere reperiti QUI, sul sito di Giuseppe Ierolli interamente dedicato alla poetessa americana.
E’ semplice: se la poesia recita "L'ultima notte ch'ella visse fu/ simile a ogni altra notte/ se non per la sua morte ", è probabile che un giovane
nostro contemporaneo "più non vi legga avante". Se invece suona: "L'ultima notte che visse/era una notte comune/tranne il morire — ", proseguirà. In
entrambi i casi è di Emily Dickinson che si tratta, e non c'è errore nella prima versione di Silvio Raffo, benemerito traduttore, solo che sono passati
gli anni ed è cambiata la lingua. Anche se è sempre stato vero che l'inglese vuole il pronome soggetto dell'azione che il verbo esprime, mentre
l'italiano no, non ce n'è bisogno, il soggetto lo si può sottintendere.
E' una particolarità della nostra lingua, sui cui riflettendo potremmo forse avvicinare una verità del nostro carattere, ma intanto cosi s'abbrevia una certa lentezza dell'italiano e la seconda traduttrice, Silvia Bre, ne approfitta. Del resto, in questa nuova edizione di Centoquattro poesie che esce per Einaudi (pagg. 224, euro 14,50), la tendenza al risparmio è chiara. Lo dimostra la nota di poche righe, ma essenziali, in cui chi traduce dichiara di non avere un criterio e comunque non le sembra importante la teoria, perché la traduzione è una pratica.
E' un atto di "nudo artigianato". Un atto che presuppone conoscenza e competenza linguistica ecc. ecc., ma soprattutto presuppone la lettura lunga, ostinata, appassionata. Attenzione, però, la lettura è un'interpretazione. Per fare un esempio, ma ne potrei fare altri, se Silvia Bre nella poesia numerata 303 di pagina 36 traduce "Majority" come "maggiore età" e non come "maggioranza" o "moltitudine" o "i più", è perché 'interpreta' quella parola. Tra gli indizi fluttuanti di significato che aleggiano in "majority" c'è anche quello, ma qui l'ambiente semantico ne stabilizza uno, e non è quello di maggiore età, che rimane sullo sfondo. Silvia Bre scrive: "L'anima seleziona la sua corte—/poi — chiude la porta — /alla sua maggiore età divina—/altri non si presenti"... Ottimo. Ma il lettore così non visualizza l'atto dell'anima che una volta scelta la sua compagnia serra la porta e si sottrae lei al mondo. Nell'esistenza sua propria Emily fece così, non si presentò ai più, ai molti, alla maggioranza, se non postuma in quelle carte segrete, in quei quaderni che cuciva e che contenevano le sue poesie.
Mi direte, in poesia non si può salvare il suono e il senso e il poeta-traduttore qui gioca più che con il senso, con il suono. Ed è senz'altro così.
Ma proprio per questo forse da lettore ignorante e appassionato io sempre più spesso sogno una traduzione interlineare che mi aiuti ad ammirare appieno
le acrobazie linguistiche che accadono in un verso... E di cui Emily Dickinson è artefice sovrana, perché il timbro proprio della poesia dickinsoniana
è l'ambiguità. Di lì nasce l'ironia, la sprezzatura metafisica della sua poesia. Molte donne-poeta (non mi piace la parola poetesse) hanno provato a
trasportare l'ellittica performance linguistica di Emily Dickinson all'italiano: per nominarne alcune tra le più recenti, Amelia Rosselli, Bianca
Tarozzi. E ora Silvia Bre, la cui versione eccelle per sottrazione. Perché ha tolto molto e non ha aggiunto nulla, come lei stessa dichiara; in ciò
dimostrando che sa leggere Emily Dickinson, che è un campione di parresia. Il gioco è a togliere, è in levare. La sua poesia è apofatica, ablativa. Già
nelle traduzioni di Barbara Lanati, non poeta, ma studiosa, questo timbro si imponeva fin dalla prima raccolta intitolata non a caso Silenzi,
del 1986. Insieme alla volontà di accompagnare il lettore nella scoperta di una esplosività creativa e di pensiero senza paragoni nella storia della
poesia [...] (Nadia Fusini - La Repubblica 28/06/2011)