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Antonio Devicienti su un libro di Ilaria Seclì

Da Narcyso

Antonio Devicienti su un libro di Ilaria SeclìQuella di Ilaria Seclì è una poesia di estrema coerenza stilistica e tematica. Così come accade, ad esempio, per la scrittura di Cristina Annino e di Marina Pizzi, la ricerca della poetessa salentina s'impernia su di un linguaggio che continuamente forza se stesso, provando a spingersi in direzioni inedite per soluzioni metaforiche e immaginifiche, abbandonando impostazioni di canto e di struttura tradizionali per cercare negli accostamenti fonici e concettuali quelle che chiamerei deflagrazioni del senso e quindi un dire un mondo nel quale proprio gli orizzonti del senso paiono o scomparsi oppure ambigui e sfuggenti. Oserei affermare che quella di Ilaria è una poesia conoscitiva, perché sembra che lo sguardo della poetessa sia continuamente presente nella scrittura cui non interessano soltanto stati d'animo o sensazioni, ma anche precise argomentazioni intorno a situazioni e accadimenti: il singolo testo poetico tende a rappresentare e non ad alludere, a descrivere e non a suggerire, ma tutto questo esso realizza costruendosi grazie ad un linguaggio non tradizionale né quotidiano. La poesia sta anche (ma non solo) in questo "poièin", in questo continuamente forgiare e riforgiare gli strumenti comunicativi, in questo accendere il fuoco del fare che, in poesia, è dire segnando la mente di chi legge, modificandone abitudini di pensiero e di percezione. E più m'inoltro nella lettura delle voci poetiche a me contemporanee, più mi accorgo quanto determinante sia il magistero di Amelia Rosselli, cui va aggiunto, nel caso di Ilaria, quello di almeno due poeti salentini: Claudia Ruggeri e, soprattutto, Antonio Leonardo Verri, formidabile e mai troppo compianto poeta, animatore culturale, editore, umanissimo ed entusiasta cultore della poesia e dell'amicizia che sapeva intessere tra poeti accomunati dal medesimo sentire e da un medesimo progetto culturale. Non posso tacere però i nomi di Paolo Fichera, di Giuseppe Truglia, Simone Giorgino sodali nella ricerca poetica e nelle iniziative culturali cui Ilaria Seclì partecipa e che, appartati ma consapevoli e determinati, forniscono un contributo davvero alto e sprovincializzante ad un panorama poetico che più di una volta non riconosce il valore, ma l'appartenenza.

È legittimo chiedersi come interpretare il titolo del libro e cercarne le ragioni durante la lettura. Proprio Paolo Fichera, in una bella riflessione rintracciabile all'indirizzo http://theregionofunlikeness.wordpress.com/2014/09/02/ilaria-secli_del-pesce-e-dellacquario/

la stessa forza del fiore che apre, la pioggia che si svuota, il muro secco inginocchiato e la nuca alla prima comunione con il sole. arriva la voce e sa: formica accanita, silenzio di santuario, ammasso di colori alla poltrona.
l'estate non seppe il nero e tanta ne voglio e cerco ancora. Tu, che spalanchi al palmo il mare che la bocca di febbraio strinse. per i segreti cassetti del monte sommerso: il marinaio pregò, il pesce ebbe confidente. porti la conchiglia all'orecchio per ricordarmi il suono delle madri.
io, sposa del dio estinto. del figlio perduto. se il cielo rovescia ancora ciò che la terra solleva tu tieni e sposti nella misericordia della valle senza vento

L'avvio, che ricorda l'attacco di una delle liriche più belle di Dylan Thomas ( the force that trough the green fuse drives the flower ), ci introduce ad un testo già totalmente segnato dalle cifre stilistiche peculiari di Ilaria Seclì: una ritmica che, dilatando il verso molto ben oltre la cadenza classica dell'endecasillabo, lo trasfigura in cadenze musicali e concettuali le quali, da un punto di vista tipografico, hanno talvolta l'apparenza di testi in prosa poetica, ma che, in realtà, costituiscono la visualizzazione sul foglio proprio di una frase poetica che non conosce interruzioni, che si snoda continua e all'interno della quale il punto fermo (seguito, si badi bene, dall'iniziale minuscola) o un altro segno di punteggiatura sono musicali suggerimenti d'intonazione e ritmo.

Allo stesso modo il verso libero, sostenuto di frequente dall'enjambement, si determina come unità ritmica non isolata, ma immersa nel continuum dell'intonazione come nell'esempio che segue:

Nel modo che le è peculiare, Ilaria rappresenta il tempo che ci sta alle spalle e il nostro presente, utilizzando il linguaggio in un modo che le permette di sfuggire al modo convenzionale del dire in poesia che è, dopo secoli di tradizione lirica occidentale, una delle questioni fondamentali da affrontare quando si scrive:

In realtà quest'ultimo testo apre l'ebook I mosaici di Idrusa pubblicato nel marzo 2008 su PaginaZero ( http://rivistapaginazero.wordpress.com/2008/03/03/e-book-ilaria-secli/), costituendo dunque un'anticipazione del libro poi edito da LietoColle; vi compare l'invenzione sia concettuale che verbale (e a tutt'oggi centrale nella poesia di Seclì) dell' che sembra costituire una distante (o metafisica) presenza muta (non si sa se benigna, maligna o soltanto indifferente e che farebbe pensare al concetto aristotelico del Immobile Afono ) e che fa da sfondo allo svolgersi dell'esistere di cose, animali e persone lungo i secoli; l'Immobile Afono sembra essere anche lo spazio vasto del dire, uno spazio in sé a-fono, ma nel quale la della poetessa s'installa e si fa udire intonando una lingua dotata di una sintassi sua peculiare e di una strutturazione di concetti ed immagini sempre sorprendente, originale, in grado di riscattare il linguaggio comune (ed il suo portato di metafore usurate), riconducendolo ad un tentativo di significare e di inventare, in una ri-fondazione dell'espressione e della realtà. In tal senso la poesia di Ilaria Seclì s'immette nell'alveo tracciato da quei poeti che raccolgono e rilanciano la sfida al labirinto, che, oltre la messa in crisi del linguaggio e degli strumenti conoscitivi, si ostinano ad usare proprio il linguaggio per avanzare nel buio e nell'impermanente, nel frammentato e nell'indidioso. Qui, ad esempio: oltre Motore immobile la tramatura del testo si riconosce un paesaggio, verosimilmente salentino o, comunque, meridionale, rappresentato, appunto, per doloranti frammenti tenuti insieme dai "secoli di pietra" e se il luogo delineato nel testo fosse Otranto, allora si renderebbero perspicue molte immagini presenti nel testo, con quel che può rappresentare tanto la celebre conquista turca della città, che il nostro stesso futuro, che così spesso ci appare minaccioso e distruttivo. foné è infatti anche referto di una caduta e di una distruzione in atto da molto tempo che, riducendo ogni cosa in frantumi, viene frenata (o soltanto ritardata) dalla capacità che ha la parola di verbalizzare tale processo e di salvare quei frammenti, tentando di trovarne e conservarne le connessioni; in questo senso potrebbe essere letto l'accenno ai mosaici (elemento di riferimento è infatti il mosaico del monaco Pantaleone nella Cattedrale d'Otranto) e ad Idrusa che, secondo la leggenda, da donna forte, indipendente e coraggiosa avrebbe preferito la morte piuttosto che subire la violenza dei Turchi conquistatori: in realtà nella raccolta di LietoColle non compare alcun accenno ad Idrusa, ma certamente Ilaria Seclì dispiega nel libro un suo atteggiamento agonico e coraggioso nei confronti della realtà da un lato liquida (sfuggente, inafferrabile), dall'altro violenta ed offensiva. sinistro rombo di vento / venturo Del pesce e dell'acquario

bilancia d'acqua

L'acqua della nascita (il liquido amniotico), l'acqua purificatrice (il lavarsi), l'acqua marina, il suono dell'acqua: ecco ciò che, in un libro intitolato al pesce e all' acquario, viene celebrato con un testo benedetto dalla grazia della poesia.

Tramite l'iterazione, gli omoioteleuti, le allitterazioni, le assonanze e consonanze Seclì costruisce il testo per aggiunte in successione di elementi connessi, appunto, da richiami sonori e semantici, per cui la consapevolezza e la presa d'atto del "franare" non coincidono con la rassegnazione o il semplice referto, ma, tramite il linguaggio, danno luogo ad un atteggiamento attivo e dialettico rispetto a quel rovinare, ad un ), perché vivere ed interrogare gli altri e il mondo è, evidentemente, un chiedere l' cioè la com-passione, il riconoscersi accomunati da un medesimo dolore bisognoso di comprensione e solidarietà, quale spesso ci appare il mondo.

Quello di Ilaria è un linguaggio accesamente immaginifico e fortemente metaforico che esige un lettore collaborativo e a sua volta esigente; non è un caso, tra l'altro, che Del pesce e dell'acquario sia in stretta relazione, come ho già anticipato, con l'opera, oltre che di Paolo Fichera, anche di Simone Giorgino e Giuseppe Truglia, due poeti salentini dei quali sono presenti precise citazioni nel libro di Seclì, poeti che potremmo definire appartati, ma a dir poco interessanti ed originali i quali, assieme a Luciano Pagano, hanno pubblicato un libro dal titolo Venenum (Liberars, Lecce, 2000), passato (salvo pochi casi) relativamente inosservato e che, invece, è testimonianza di un'esperienza di ricerca poetica condivisa ed innovatrice come poche, determinata senza remore a rompere gli schemi di un fare poesia (ed editoria di poesia) accademica ed istituzionalizzata, spesso ipocrita e asservita ad interessi economici, in altri termini "normalizzata ed addomesticata"; mi piace allora sottolineare come proprio fuori da viete direzioni di poetica sia l'opera di Ilaria, come essa tragga nutrimento da esperienze periferiche, ma forse proprio per questo assai feconde ed avanzate e si pensi anche all'opera di Claudia Ruggeri, di Salvatore Toma, del già citato Verri. In tal senso l' elfo (come forse il Matto o l' Attore nell'opera di Claudia Ruggeri Inferno minore) potrebbe essere intesa quale incarnazione del poeta:

Ma persiste comunque un dialogo con le forme tradizionali della poesia italiana, per cui se nel il testo si organizza in quartine di versi liberi, quello che segue sembra un sonetto, anch'esso in versi liberi (con l'annotazione che il verso di Seclì tende ad essere un endecasillabo ipermetro) e il tema sembra essere anche (ma non solo) quello delle forme del dire in poesia:

E il suono e l'obbedienza intera a poco a poco
fatto sangue il sangue creduto fermo, tuono
abbia a ricordare l'unico prodigio, il solo

Di questo che ritorna soffio d'altra aria
altri nomi e venti, altre mani scoperchiate
le cifre irrisolte eterne che ci sono state date
(pag. 32).

Scrive molto bene Antonio Errico in http://salentopoesia.blogspot.it/2009/08/il-mestiere-del-poeta.html : "È poeta che tende il linguaggio fino allo spasimo, Ilaria Seclì. Che tenta di violare la soglia del dicibile nella consapevolezza che l'indicibile resterà comunque tale. Ma lei si muove lungo quella soglia: guarda al di là, sbircia o scruta, sospettando che ci possa essere, in qualche punto, un varco, una maglia rotta nella rete, un pertugio che consenta l'incursione. Nel frattempo intercetta suggestioni. Tutti i segnali che le arrivano dalla sponda dell'inespresso si fanno seduzione di poesia sulla poesia, per la poesia. Una sperimentazione pacata, serena, meditata, distante da mode, modelli, artificiosità, pensata soprattutto come un confronto con se stessa, con il proprio universo semantico, con la forma del linguaggio che si è impastata ancora di più con la ricerca del pensiero, con una riflessione profonda, essenziale. Ilaria Seclì cerca costantemente la metamorfosi del significato, l'espansione che sia in grado di tessere relazioni tra concetti distanti, associazioni che annodano elementi provenienti da sfere tematiche senza apparente connessione. Ed è probabilmente questa la caratteristica più interessante, perché più di ogni altra rivela l'azzardo del colpo di dadi, la capacità di stringere nodi espressivi fondamentali, l'abilità nel cambiare registro, di intrecciare l'aulico e il quotidiano, l'eco letteraria con un'immagine della memoria.

Sottolineo qui che il libro si articola in quattro sezioni, delle quali la prima non ha titolo, la seconda si chiama Dal bosco, la terza Tre giorni postumi o dellogniddove e l'ultima L'opera maltradotta, la quale si apre con un testo intitolato Carrozza barocca e che richiama il titolo del bellissimo Lamento della sposa barocca di Claudia Ruggeri, ma anche la suggestione assai forte che il Barocco leccese e salentino esercita su Ilaria in termini di rappresentazione del reale e della sua verbalizzazione. Scriveva Claudia: t'avrei lavato i piedi / oppure mi sarei fatta altissima / come i soffitti scavalcati di cieli / come voce in voce si sconquassa / tornando folle ed organando a schiere / come si leva assalto e candore demente / alla colonna che porta la corolla e la maledizione / di Gabriele, che porta un canto ed un profilo / che cade, se scattano vele in mille luoghi / (...) e scrive Ilaria:

Pensandoci se ne potevano trovare altre.
pensandoci se ne potevano trovare di migliori.
forse più efficaci. non farse false soluzioni. forse.
sollevata appesa bruciata stordita.
Pensandoci se ne potevano trovare.
Offerta senza oneste intenzioni
in tuffi blu di cristi kieslowskiani.

Fosse vivo E. 17 nel '92. fossi viva io.
fosse stato un albero o un'unghia di gallina
l'ematofago che impietriva
fosse stato una mondina.
fosse stato un albero o un'unghia di gallina
l'ematofago che impietriva
fosse stato una mondina.

Oh angoscia che viene in belletto e s'affaccia
carrozza barocca décolleté prezioso
e gonna gonfia di merletti francesi. neri.
gonfia da infilarci una vita. uligine parigina
e giocare a giocarla tra le gambe intorno
ooo, ulaop, giro in tondo, giro in tondo
com'è folle il mondo, com'è folle la terra.

Oh madame ubriaca di vino e di eccesso
oh angoscia che viene in belletto e s'affaccia
carrozza barocca. portiamola in scena la parte
proviamola ancora montiamo le luci schiariamo le voci.
Dei morti è il pubblico ed è lì ad ascoltare
senza tirso o crocefisso a farli ballare
che è singhiozzo di bruti________ed è meglio all'appello__________

me ne vado nuda e fiera
mi porto l'umanità nella pancia
nelle braccia gotiche e snelle
sui marciapiedi, per i vicoli stretti
non so se mi difendo e strappo
o mi porgo soltanto indifferente
al silenzio al buio al niente
(pag. 51).

BERTRAND E JULIE

la morte s'inginocchiò che era cosa sconosciuta quel cadavere giovane di un amore che si puliva ancora le labbra delle sue libagioni infilate di sangue e alcool tra un Monet e un Picasso tra foto linguacciute e bilancini di precisione.
una croce si contorse e con gli occhi allucinati invitò alla rassegnazione o alla rivoluzione della carne. schiodarsi, in realtà, e soccorrere, non lei, l'assassino. consolarlo. schiodarsi chiedeva alla seconda inattesa Passione.
dagli orifizi dell'appartamento qualcosa filtrava. sottile e inesorabile, gonfio di peste e maledizione. di morte o liberazione. che colava polverosa come da abissi di galassie in fuga o come imperituro fuoco di eugenici esseri terragni.
era l' Avvento. il suo proclama. a raccolta chiamava i destinati.
Julie, la morta, sorrideva al cuore sacro e puro di Bernard mentre il suo gocciolava come un acquerello distratto.
quando arrivarono lui salterellava con le labbra ipnotizzate sulla fronte, sul mento, sugli occhi di lei e sulla bocca, come in una danza a croce di calvario.
quando arrivarono, Bertrand immaginò di perderla. e svenne. poi rinvenne. e vomitò. quando arrivarono lo ammanettarono. lui piangeva e gridava SEGUIMI, Julie, SEGUIMI!
nuvole color muschio si affacciarono allungandosi timide dai vasi, dai cassetti, dalle valigie scomposte, dagli armadi aperti, dal buio vuoto di scarpe spaiate. e una nenia sacra veniva come odore indecifrabile e si gonfiava ed espandeva a tela o canto di penelope.
i polmoni rossi della Terra venuti a congelare il frutto acerbo di un'altra Storia.
un tentativo precoce e perfetto di resurrezione
(pagg. 57 e 58).

E nel lessico di chi vive e scrive la poesia in modo totalizzante il guasto e l'errore sono espressi a mezzo della metafora dell'

l'opera maltradotta

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