Sintomi inequivocabili del fatto che ti piace un disco: 1. Non riuscire ad evitare di muovere le labbra seguendo i testi delle canzoni. Anche se l'ascolti in cuffia. In un luogo pubblico. Con l'aggravante dell'oscillazione (poco) armonica del corpo nelle pause strumentali. Sai perfettamente che, vista dall'esterno, sembri un'epilettica in preda a convulsioni. Ma fondamentalmente, in quel momento, non te ne frega alcunchè.
2. Lasciarsi trasportare dalla musica al punto da rischiare di mancare la tua fermata. Il che non è bello, se ti trovi a bordo di un treno diretto a Venezia. Cioè a due ore da casa tua e più di una dal posto in cui sei diretta.
3. Fissare il vuoto con aria ebete mentre cerchi di infilarti il golfino rosso che avevi previamente - ed opportunamente- appallottolato nella maxi-borsa coordinata. Sentirti dire dalla sconosciuta che ti siede di fronte "Guarda che l'hai messo al rovescio", e urlare un "ODDIOOOOGRAZIEEE" a volume inappropriato, tutto attaccato e con troppe vocali. Scateni immancabilmente gli sguardi sconcertati di un ragazzo intento a guardare una serie tv al computer, di un signore che stava messaggiando al cellulare, e ovviamente della tizia in questione. Una ragazza, al tuo fianco, si sveglia dal pisolino che stava beatamente schiacciando. E tu senti il vago (ma proprio vago) desiderio di scomparire soltanto quando ti decidi a schiacciare il tasto pause.Insomma: alla fine è andata così. Il furgone parcheggiato sotto casa. Le unghie sui bordi dell'involucro di plastica. E tutta una valanga di emozioni.
Non avrei voluto parlarvene, davvero. Tre post consecutivi sullo stesso argomento sono un po' troppi, anche se li segmenti in diverse sfaccettature. Solo che, dopo tre anni, un altro album ha saputo trasformarsi in un simulacro di droga. Di quella che ti inietti in vena. Che arriva al midollo. Dalle note al cervello, sputtanandoti i neuroni. E d'un tratto sei pimpante, pulsazioni accelerate, euforica e iperattiva in modo quasi chimico. Come quei tizi coi rasta che mi passano davanti mentre provo a riprender fiato sulle seggiole metalliche di una qualche stazione. Si urlano addosso, il tono acceso da una rabbia feroce, animale, inumana. Poi si abbracciano, e ridono ancora.
I dischi- droga non sono facili da trovare. Ti infondono il bisogno fisico di ascoltarli in loop. Di ricominciare dalla prima traccia quando arrivi all'ultima. E poi di nuovo. Di nuovo. Ancora. Dopo tre anni ne ho trovato un altro. E mica è colpa mia se sulla copertina c'è sempre lo stesso nome. Poi ho scritto una cosa. Righe buttate giù in spagnolo. Filo diretto cuore-carta, dopo il primo ascolto. Occhi umidi e poca attenzione alla sintassi. Un documento pdf da convidere senza pensarci sù. E, per qualche ragione a me ignota, quelle parole sono riuscite a toccare un numero di persone francamente inimmaginabile. Dal diretto interessato alla strale di sconosciuti incuriositi da un ringraziamento pubblico. Esaltati al punto da passare parola, mentre inerte e francamente shockata assistivo all'aumento di follower, imbarazzo ed anche di un po' d'autostima. Ecco perchè ho pensato che, se le mie sensazioni avevano riscontrato l'approvazione di tutta quella gente, magari potevano allora interessare pure a voi. Voi che, oltretutto, le premesse le sapete. E allora si fa in-necessario dirvi del momento strano in cui questo cd mi è entrato nell'esistenza. Della perdita - apparente, a quanto pare inesistente - di passione. Della rivelazione per cui ad essere cambiato è solo il modo in cui la vivo. Io ve lo prometto: è l'ultimo post (almeno per un po') che dedico al nuovo lavoro di Dani Martín. Ma, prima di archiviare il discorso, lasciate almeno che vi presenti le canzoni che mi sono piaciute di piú.
É auto-ironica. Divertente. Spensierata. Ed é - soprattutto - una dichiarazione di intenti. Il featuring, che coniuga la musica popolare messicana al piú classico dei Rock 'n'Roll, é a cura de Los Cuates de Sinaloa. Se il nome, lí per lí, non vi dice niente, sappiate che sono gli autori della sigla e colonna sonora della serie cult Breaking Bad. Ogni volta che ascolto "Estrella del Rock" mi trovo a sperare con tutta l'anima che qualcuno, pur non essendo fan di Dani, riesca ad uscire dalla scatola chiusa dei suoi pregiudizi e si permetta di premere play. Anche solo una volta. Anche soltanto per curiositá.
Magari non cambierá idea sul cantante - non aspiro a tanto - peró la cambierá sulla persona. Perché chi sa ridere di sé merita rispetto a prescindere. Sono anche abbastanza certa, tuttavia, che in pochi si prenderanno la briga di darsi (e dargli) questa possibilità. CARAMELOS
Sarebbe il singolo perfetto per l'Italia, ne sono convinta. E' latina abbastanza da rispettare le aspettative dell'italiano medio nei confronti della musica ispanofona. E' ritmata abbastanza da non riuscire a stare fermo quando l'ascolti. E' allegra abbastanza da contagiarti di continuo buonumore.
EMOCIONAL
Poco da aggiungere, è quasi perfetta.
La prima volta che l'ho ascoltata, per qualche motivo, mi sono ritrovata a sentire qualcosa di umido e salato che mi scendeva dagli occhi. Non mi succede tanto spesso, di piangere per una canzone. E, onestamente, a tutt'oggi non so perchè mi sia capitato. Perchè mi continui a capitare, anzi. Ogni dannata volta che la sento, in cuffia o dallo stereo, a volume alto o appena percepita dalla stanza accanto. La melodia è allegra. Il testo è velato di positività. Eppure, io ascolto Gretel e piango. E' come se mi rimescolasse qualcosa dentro, vai a capire. Se prendesse le mie budella, le strizzasse, e ci facesse un nodo. Parla di due persone che non sono destinate a stare assieme. Lui dice a lei che non vuol essere la causa delle sue sofferenze, e le chiede di continuare a fare la sua vita. E' il primo "sólo te pido que salgas a bailar" che mi annienta. E' sua la colpa, dannazione. Cedo sempre lí.
POR LAS VENASLa preferita di mia madre. Un tango cantato a duetto con Joaquín Sabina. La sua inconfondibile voce ruvida che si sposa inaspettatamente bene a quella di Dani. Un'atmosfera vagamente retró.
Si capisce giá dal titolo, dai, che mi sarebbe piaciuta.
La frase "busco un sol que alegre mi mañana, un avión que me aleje de aquí" , poi, dice tutto giá da sola.
EL PUNTITO
C'era una specie di gioco. Una serie di sfide inventate dalla Sony per far assaggiare l'album prima della sua uscita. Tu rispondevi a dei quesiti. E, ogni volta che risposta era corretta, potevi ascoltare dieci secondi di una canzone. Ora: capirete che dieci secondi non ti permettono, in nessun caso, di apprezzarne o capirne il testo. Cosí, sulla spinta di un entusiasmo tutto melodico, avevo fatto sfogo della mia solenne idiozia. Dicevo che era piuttosto normale che mi piacesse, dal momento che il mio cognome, in inglese, significa punto. Scherzavo - idiota, l'ho detto - sul fatto che di sicuro era stata scritta per me.
Poi é arrivato il disco. Finalmente, il testo, l'ho ascoltato in versione integrale. E la cosa assurda é che lo vivo SUL SERIO come se fosse stato scritto per me. Mi fa riflettere. Mi costringe ad esercizi di autocritica. Mi spinge a pensare a tutte le volte in cui ho voluto, desiderato, chiesto, preteso. E magari non ho dato io. Magari sono stata cosí concentrata su quello che mi sarei aspettata da non chiedermi cosa volessero gli altri. O forse ho creduto che le cose mi fossero dovute, che mi piovessero addosso da quel "cielo perfecto y bonito" e non dovessi provare, invece, a lottare per conquistarmele da me.
Sulle poche righe che ho scritto in spagnolo mi é sembrato doveroso chiedere scusa a chiunque leggesse, se mai qualche volta avessi commesso quell'errore anche con loro.
A mó di postilla, lo pseudo-rap del finale sembra fatto apposta per un featuring di Jovanotti. Ché tanto, a collaborare con gli spagnoli, ormai c'é abituato da un po'.
Ah! Forse non lo sapete, ma il cd - nella versione standard da 11 pezzi - é giá ascoltabile gratis e legalmente su Spotify. Insisto: dategliela, una possibilitá.