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And the winner is…

Creato il 23 aprile 2010 da Okamis

Articolo di transizione, questo. Anzi, diciamo pure che rappresenta uno dei rimasugli ereditati da prima del cambio di rotta annunciato lo scorso mese. In origine infatti quanto segue sarebbe dovuto essere la recensione di Avatar, annunciata l’anno scorso al momento dell’articolo su District 9. E ci ho provato a scriverla, lo giuro! Solo che ogni volta che mi mettevo a lavorare sull’ultima fatica di mr. Titanic, venivo colto da una forma acuta di Chimelofafarite, morbo trasmesso dalle opere di qualità infima. Sì, perché per il sottoscritto Avatar rientra proprio in tale categoria. Anzi, sarò più specifico: reputo Avatar la più grande baracconata montata ad arte nella storia del cinema.

Oh, che goduria. Ma lo sapete che già mi sento meglio? Comunque, per quanto l’idea di un articolo caterpillar mi solleticasse non poco, alla fine ho preferito dar vita a questa personale classifica dei tre film di Fantascienza più importanti dell’anno passato. E chi se ne frega se siamo già ad Aprile. L’ho detto dopotutto che oggi il convento passa gli avanzi, o no?

3° posto: Avatar

And the winner is…
Lo so, lo so. Poche righe più sopra l’ho definito una baracconata. Perché allora inserirlo in classifica? Semplice: non ho detto che parlerò dei film di Fantascienza più belli del 2009, ma di quelli più importanti. Perché è indubbio che, a livello d’impatto, l’opera di Cameron sia un peso massimo, e non solo per i trilioni spesi nella sua realizzazione. Avatar, infatti, con tutta la sua tecnologia all’avanguardia, è riuscito in una vera e propria impresa: riportare il cinema indietro di un secolo e mezzo.

Un paradosso? Nemmeno troppo. Avete in mente gli spettacoli dei fratelli Lumière, quelli dove gli spettatori venivano colti dal panico alla vista di un treno che avanzava minaccioso verso la telecamera? Ecco, fatte le dovute proporzioni, la visione di Avatar suscita una sensazione di straniamento molto simile. Il problema, però, è che i fratelli Lumière non facevano cinema, non almeno per come lo intendiamo oggi, tanto che buona parte delle loro produzioni, soprattutto quelle dei primi anni, vengono correttamente definite “vedute animate”. I loro erano soprattutto esperimenti, giochi; per quanto serissimi nel metodo, sia chiaro. Ecco, Avatar è la stessa cosa: nulla più di un giocattolone, magari per qualcuno anche divertente, ma davvero difficile da elevare al rango di Cinema con la C maiuscola, penalizzato com’è da una sceneggiatura lacunosa quando non spudoratamente scopiazzata (chi ha detto Pocahontas?), una recitazione media di livello basso (solo la Weaver si salva) e da una quasi totale mancanza d’inventiva scenografica (e chi dice il contrario significa che non ha mai letto o visto nulla di davvero weird). Dopotutto, come giudicare altrimenti un film la cui unica idea decente sono i capelli con la presa USB?

Per quanto Avatar sfiori in certi punti l’imbarazzante (la scena della diserzione non punita è a un livello di ridicolo raggiunto solo da pochi B-Movies), è tuttavia una pellicola destinata a lasciare il segno. Ma un segno negativo, per quanto mi riguarda, visto che reputo il 3D pressoché inutile, nulla più di una scusa per gli attuali registi a ricevere finanziamenti dai produttori (a quanto un Vacanze di Natale in 3D?). L’importanza di questo film, quindi, non rientra tanto in sue qualità intrinseche, quanto nel fatto di essere semplicemente arrivato per primo. Che dite? Vi ricorda un certo “caso editoriale” tutto italiano? Ma vaaa… ^_^

Ah, giusto per farsi quattro risate, in giro per la rete ho trovato più di una persona, pardon, più di un fanboy intento a osteggiare l’accusa di banalità, definendo invece Avatar come un film archetipico. Che dite, facepalm? Sì, decisamente facepalm.

2° posto: District 9

And the winner is…
Su District 9 non mi dilungherò troppo, visto che ne ho già ampiamente parlato nella recensione citata a inizio articolo. Mi limiterò invece a spiegare le mie ragioni per affibbiargli la medaglia d’argento, e per farlo partirò da una considerazione personale.

Quando circa due anni fa si cominciò a parlare di questa pellicola e dopo averne saggiato le prime immagini, mi immaginai un film rivolto soprattutto a un pubblico per così dire, passatemi il termine, “raffinato”. Dopotutto già il cortometraggio da cui era tratto, per stile di regia e intelligenza dei contenuti, si discostava prepotentemente dai prodotti più commerciali.

E invece no. District 9 è riuscito a fondere (quasi) alla perfezione, sia a livello visivo che di sceneggiatura, due anime apparentemente inconciliabili: quella da Hard Science Fiction e quella più poppettara, per quanto la lancetta tenda verso quest’ultima. Lo ammetto, un po’ la cosa mi straniò al momento della visione al cinema. Mi sentii come tradito. Ma con il senno di poi dico: che importa? District 9, dopotutto, è un film che se ne frega di simili vincoli (gabbie, le chiamerebbe forse qualcuno di mia “conoscenza”). Il risultato è un film semplice nel messaggio, ma che riesce a rifuggire con furbizia dalla trappola della banalità. Come ho più volte ripetuto anche su altri lidi, District 9 è un film che, pur avendo l’uomo medio come referente principale, non si fa problemi a proporre un protagonista che per una volta tanto non è la solita macchietta; ma soprattutto non si fa problemi a lasciare irrisolti alcuni quesiti, affidando all’intelligenza dello spettatore il compito di cogliere i molti indizi sparsi durante la visione e risolvere il rebus finale.

Insomma, come accennato all’inizio, la parola d’ordine di District 9 è fusione. Fusione di generi, sì, ma anche di contenuto, il tutto mantenendo al contempo un invidiabile equilibrio tra semplicità del messaggio e complessità sia dei personaggi sia della macrostoria che fa da sfondo alle vicende del protagonista. Un’impresa non semplice per un regista quasi esordiente.

1° posto: Moon

And the winner is…
Ok, alzi la mano chi ha avuto la fortuna di vedere Moon al cinema.

Come sospettavo: quattro gatti. Già, perché Moon, purtroppo, rientra in quella lunghissima lista di pellicole di qualità penalizzate però già in partenza da un battage pubblicitario quasi assente. Perché allora questo suo primo posto? Perché al pari di Avatar anche Moon compie un salto indietro nel tempo, ma lo fa in una maniera diversa.

La pellicola di Duncan Jones attinge infatti a piene mani dalla Fantascienza – quella vera, quella con la F maiuscola – degli anni Sessanta e Settanta, da 2001: Odissea nello spazio a 2002: La seconda odissea (che a dispetto del pessimo titolo italiano NON è il seguito del film di Kubrick; quello è 2010: L’anno del contatto), il tutto passando per Atmosfera Zero (poi io ci vedo anche un po’ di Saturn 3, che però come film non è che fosse proprio il massimo della vita, anzi). Rimandi al passato evidenziati anche dalla scelta dei colori, visto l’uso predominante di tonalità bianche e nere. Di più: Moon è uno dei film a colori con meno colori che abbia mai visto. Tutto ciò, unito all’ottima interpretazione di un Sam Rockwell in stato di grazia (come quasi sempre, dopotutto) e a una trama solida per quanto non originalissima, porta il film di Duncan Jones sul gradino più alto del podio.

Proprio i personaggi sono il fiore all’occhiello di Moon. Non ci troviamo infatti di fronte a una di quelle pellicole che si reggono sulle incerte gambe dei colpi di scena. Al contrario, Moon è un film fondato sui dialoghi. Ma soprattutto, Moon è un film intriso di umanità senza, paradossalmente, avere tra i protagonisti un solo vero essere umano (nessuno spoiler, tranquilli: la vera natura del protagonista viene svelata dopo nemmeno un quarto d’ora). Così alla fine non sorprende che il personaggio più umano risulti essere GERTY, un’intelligenza artificiale il cui unico obiettivo è difendere i suoi “figli” (a tal proposito, se potete guardatevi il film in inglese, così da godervi la bellissima voce di Kevin Spacey nei panni di GERTY).

Moon è tutto questo: un film che, pur all’interno di uno schema collaudato, riesce a colpire lo spettatore grazie alla forza di personaggi ottimamente costruiti. Peccato solo per quelle voci fuoricampo durante l’epilogo. C’era davvero bisogno di usare questo (pessimo) stratagemma per raccontare il finale del film? Non si poteva chiudere il tutto lasciando lo spettatore nel dubbio, così da accrescere il clima di solitudine che fa da sfondo alle disavventure di Sam?

A prescindere da ciò, il mio consiglio è solo uno: correte a guardarlo.

Elucubrazioni finali

Questi tre film, per quanto diversissimi gli uni dagli altri, sono legati da un filo rosso. Anzi due, che però si muovono in direzioni contrarie.

La prima riflessione che mi viene da fare riguarda Cameron. Ammetto che un po’ mi sorprende vedere come i suoi film di maggior successo (che equivalgono poi ai film di maggior successo della storia del cinema) siano anche le sue pellicole peggiori. E non peggiori perché lo dico io, ma perché è la naturale conclusione a cui arriverebbe chiunque non abbia le fette di salame sugli occhi (per quanto il mondo sia pieno di fanboys e fangirls incapaci di ammettere che le sceneggiature di Titanic e Avatar fanno pena).

E dire che Cameron, quando ci si mette, la Fantascienza la sa trattare e pure bene, a prescindere che si parli di androidi venuti dal futuro (Terminator 1 e 2, rarissimo caso di seguito migliore del pur buon capostipite), di alieni assetati di sangue (Aliens “escono dalle fottute pareti” Scontro Finale) o di incontri ravvicinati del terzo tipo (The abyss, che tra l’altro fu un mezzo flop al botteghino). Che sia allora vero che il grande pubblico è composto per lo più da pecoroni che giudicano la bellezza di un film soltanto dalla patina esterna?

Seconda riflessione, secondo filo. District 9 e Moon, il primo per tematiche e il secondo per stile di regia, sono ottime pellicole che attingono a piene mani dalla Fantascienza vecchia scuola. La cosa assurda è che entrambe sono state dirette da esordienti del grande schermo. Ora, la mia domanda è: dobbiamo forse temere che tra quindici o vent’anni pure Neill Blomkamp e Duncan Jones si daranno alla Fantascienza brocca? No, ditemelo, che almeno mi preparo psicologicamente.


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