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Andrea Sarubbi sostiene il progetto Ichino

Creato il 18 giugno 2011 da Leone_antonino @AntoniLeone
Andrea Sarubbi sostiene il progetto IchinoNon è una questione riservata agli esperti, quella del lavoro, ma probabilmente è il terreno su cui si gioca l’identità del Partito democratico: le difficoltà più serie passano sicuramente di qui, anche se la maggiore televisibilità di altri temi – quelli eticamente sensibili, ad esempio, o quelli di politique politicienne – fanno slittare il lavoro in secondo piano. C’è da capirlo, perché non è che nei bar si discuta abitualmente dei contratti di secondo livello, ma questo non ci permette di sottovalutare il problema: perché di problema effettivamente si tratta, come ha spiegato oggi Dario Di Vico sul Corriere della Sera. Di Vico parte da una premessa sbagliata – la marcia indietro (che invece non c’è) di Walter Veltroni sulla ricetta proposta da Pietro Ichino – ma arriva purtroppo ad una conclusione verosimile sul futuro del Pd, che mi auguro verrà smentita dai fatti.;Riassumo Di Vico in poche righe, per chi non l’avesse letto: il Pd che si presentava alle Politiche 2008 era liberal-socialista, quello attuale è più tradizionalmente neo-laburista. Spinto dalle piazze (referendum) e dalla crisi, ha abbandonato i temi della libertà economica (liberalizzazioni, privatizzazioni e lenzuolate) e si è concentrato sul consenso: il pericolo maggiore è che ora si avvicini al popolo, ma si allontani dalla spinta modernizzatrice, dalle soluzioni per uscire dalla crisi.C’è ancora spazio per la linea lib-lab o dobbiamo rassegnarci all’ultima versione del modello post-comunista? Ecco, questo più o meno è quello che scrive Di Vico, e che secondo me ci fotografa in pieno: pur non essendo un esperto di questi temi, che ho studiato solo all’università, ho il timore che un giorno il Pd possa ridursi a proporre la vecchia ricetta keynesiana di pagare metà dei disoccupati perché scavino buche e l’altra metà perché le riempiano di nuovo. Per quel poco che possa valere la mia firma, anche io – come tanti altri miei colleghi di sensibilità diverse, da Ignazio Marino a Paolo Gentiloni, da Enzo Bianco a Franca Chiaromonte, da Sergio Chiamparino a Ivan Scalfarotto – sottoscrivo il documento Ichino, e lo faccio proprio nel giorno della nostra conferenza sul lavoro. Ne condivido la necessità di semplificare il codice del lavoro, perché un potenziale investitore straniero non debba mettersi le mani nei capelli; ne condivido l’analisi severa dell’attuale sistema di contrattazione collettiva, che va in blocco se un sindacato solo non è d’accordo con gli altri; ne condivido, soprattutto, l’idea che la contrapposizione fra protetti e non protetti – gli uni che non possono essere licenziati, gli altri che non verranno mai assunti – è figlia di una visione novecentesca che oggi lascia per strada milioni di giovani. Cito il passaggio chiave, così forse ci capiamo meglio:
Un codice semplificato così concepito può dettare una disciplina della stabilità del lavoro e del reddito capace di applicarsi a tutti i nuovi rapporti di lavoro, superando il dualismo attuale fra protetti e non protetti, e anche quello fra dipendenti delle imprese di dimensioni medio-grandi e dipendenti delle più piccole: tutti a tempo indeterminato (tranne i casi classici di contratto a termine, quali le sostituzioni per malattia o i lavori stagionali), a tutti le protezioni essenziali (in particolare quella contro le discriminazioni), ma nessuno inamovibile. E a tutti, in caso di perdita del posto di lavoro, una forte garanzia di continuità del reddito e di investimento nella loro professionalità, in funzione della più rapida e migliore ricollocazione. È evidente la rottura drastica che una riforma di questo genere può segnare rispetto al regime attuale di vero e proprio apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori poco o per nulla protetti; e dunque il significato che la riforma stessa può assumere sul piano dell’equità sociale, della lotta alla disuguaglianza e della protezione dei più deboli, che oggi nel mercato del lavoro sono soprattutto i più giovani. Oggi è possibile perseguire questo obiettivo senza aggravio per l’Erario statale, se si attiva il “gioco a somma positiva” della flexsecurity, che consiste nel coniugare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nel mercato prima ancora che nel posto di lavoro.
Il Bersani ministro sarebbe stato d’accordo, ne sono sicuro. Il Bersani segretario spero non abbia cambiato idea.

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