Il divo Giulio sembrava immortale. E non tanto perché è arrivato a 94 anni, quanto per il fatto che almeno quattro generazioni se lo sono trovato come ministro e presidente del consiglio, poi come imputato per baci e abbracci mafiosi e infine come ambiguo mito della politica e memoria storica del quarantennio democristiano. Un uomo mai logorato dalla mancanza di potere. E neanche mai dalla febbre della politica, quella vera, essendo uomo di telaio, infaticabile tessitore, pontiere fra correnti, fra partiti, fra Stato e Vaticano, tra sistema politico e massoneria, fra Stato e mafia persino: troppo abile per avere ideali, troppo implicato per perseguirli. Insomma un fedelissimo dello statu quo, del momento, di quel realismo che finisce per essere vittima delle illusioni.
Alcuni giornali lo dipingono come il sopravvissuto di un’altra stagione, ma questa è solo una banalità prospettica: Andreotti è invece un sopravvenuto, forse ha aspettato il governo Letta per esalare l’ultimo respiro e passare il testimone, nonostante il premier attuale a suo confronto sembri una borsa taroccata di Vuitton. Nessuno più di lui è stato uomo di larghe intese, purché nulla vi fosse da intendere se non la gestione del potere: lui ha messo a battesimo il compromesso storico e la successiva ”solidarietà nazionale” dopo il rapimento Moro che peraltro nelle lettere scritte durante il sequestro, espresse giudizi durissimi sul suo “amico” di partito. Sempre lui è stato il perno dell’alleanza fra il Psi craxiano e la Dc di DeMita e poi di Forlani, il celeberrimo Caf riuscendo a navigare anche nella seconda Repubblica tra berlusconismo e opposizione ulivista.
Solo l’assassinio di Falcone gli sottrasse la nomina a capo dello stato, preparata con meticolosa astuzia per far fuori i rivali di partito e Forlani in particolare: l’uccisione di Lima,uno dei ras della sua corrente, avvenuto due mesi prima la strage di Capaci gli bruciò tutte le possibilità, quando già era in dirittura d’arrivo. In fondo davvero un’ironia se si pensa alla successiva vicenda giudiziaria che metterà in luce la “collaborazione” con la criminalità organizzata. Così almeno dice la sentenza di appello, poi confermata in Cassazione. Ma forse la cosa non lo deve aver eccessivamente turbato, nonostante abbia profondamente sconcertato il Paese: in fondo la mafia è un potere e con tutti i poteri si parla, si contratta, ci si aggiusta. E di certo non deve essere stato un eresiarca dentro il sistema politico, visto che anche in tempi recenti, la massima preoccupazione delle supreme istituzioni è quella di negare ogni accesso alla trattativa stato -mafia.
Questo triste capitolo della vita del divo Giulio, riassume il concetto della politica secondo Andreotti, ma probabilmente per una larga fetta del ceto politico: gestione del potere dentro una realtà che è data come intoccabile, che non si vuole trasformare, anche se richiede molte trasformazioni di natura gattopardesca. E se è questo, allora ogni accordo, anche il più innaturale, è possibile anzi opportuno, se il momento lo consiglia. In fondo Andreotti è rappresentato al meglio in quel quadretto del tassinaro con Alberto Sordi che potrebbe essere studiato come un testo di riferimento: perché litigare, perché contrapporsi se con la buona volontà si possono trovare vie d’uscita ai problemi? Naturalmente questo comporta che le difficoltà possano essere affrontate come una sorta di equazione che ha una sola soluzione e un solo contesto possibile. E’ il succo di ciò che si è detto da troppi anni e che è stato ribadito al’indomani della nascita del governo tecnico, mentre la politica è l’esatto contrario, cioè costruire l’equazione a seconda dei valori e delle prospettive che si vogliono mettere in campo.
Ecco perché Andreotti non era un sopravvissuto e mai come in questi giorni è presente nella vita del Paese: muore come persona, ma sopravviene come un archetipo dal quale non riusciamo a liberarci.