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Anekdoten – Gravity (2003)

Creato il 21 aprile 2011 da The Book Of Saturday

Artista/Gruppo: Anekdoten
Titolo: Gravity
Anno: 2003
Etichetta: Virta

Anekdoten – Gravity (2003)

Spesso un gruppo lo si inserisce in un genere anche se di quel genere conserva pochissimo, oppure lo si lascia nello stesso perché aveva iniziato da lì un percorso anche se poi maturando ha guardato ad altro. Credo che, nell’immenso panorama neo-prog, il gruppo svedese degli Anekdoten sia uno dei tantissimi esempi di quanto detto.

Da album come Vemod (lavoro d’esordio a detta di tutti molto vicino ad album come Red o Larks’ Tongues in Aspic, dei King Crimson) a Gravity, dieci anni di carriera e altri due dischi pubblicati, hanno portato gli Anekdoten a un’evoluzione tale che parlare oggi di prog credo sia, non solo errato, ma anche riduttivo.

Il disco si apre con Monolith, colpisce fin da subito la sonorità delle chitarre che ricordano molto da vicino lo stile dei Tool, e saranno le stesse che chiuderanno questo brano di oltre sei minuti. Attacca quasi subito la voce, sicché il giro di chitarra è solo un diversivo, una iniziazione a quella che si affaccia come la peculiarità principale degli Anekdoten, la timbrica di Barker nonché l’ormai assoluta padronanza acquisita una volta sdoganati dai canoni più propriamente crimsoniani. E in effetti qui di King Crimson c’è ben poco, ma ciò non conduce a un dileguarsi della qualità, anzi…

È l’intelligente parafrasi che gli svedesi fanno degli stereotipi rock occidentali, a cui va aggiunto quel pizzico di sapore tenue, plumbeo, di stampo nordico, una commistione che fa di questo disco un piccolo prontuario di felici passaggi di armonia. Il “monolite”, se vogliamo, è rappresentato soprattutto dalla presenza di un basso pieno e quasi mai assente dal contesto, tranne alcuni frammenti, l’intero disco è contornato, talvolta anche perseguitato, da Liljeström.

Ricochet è forse la più attigua al concetto di prog passato, dove il breve intro di sinth risulta qualcosa di molto simile a In The Court of The Crimson King. Ma bastano pochi secondi per tornare ad accordarci sulle tipiche tonalità degli Anekdoten contemporanei. In tutto ciò va detto che Gravity, al contrario di tantissimi altri album del genere, pur senza mirare nella maniera più assoluta ad essere un concpt album, alla fine, per la similitudine di melodie delle tracce, sembra ambire ad esserlo. In Ricochet abbiamo anche il primo degli assoli di mellotron (e tastiere in generale) di Anna Sofi Dahlberg, in questo come negli altri lavori presente anche con il suo strumento principale, il violoncello.

Un breve giro di chitarra ci addentra in The War is Over, bellissima la tematica, altrettanto la musica. Semplice, basilare, questo brano è una culla che ci accompagna nel sonno, qui gli Anekdoten ci portano sul campo di battaglia appena finita la guerra, «vinta o persa tutto è silenzio in questo nascente nuovo mondo di pace», recita un passaggio delle liriche: quanto è bello e allo stesso tempo faccia riflettere sul domani il giorno stesso della resa, questo è il senso. I fumi di polvere da sparo neanche li si percepisce, è invece lo stesso, estenuante, giro di chitarra che sembra atteggiarsi come i cingoli dei carri armati ormai in ritirata.

What Should but did not Die: il basso vibra, e resta lì, si inserisce la chitarra, leggera, come un lavoro in loop. È qui che il cantato, dopo i tre campioni precedenti, ci lascia scorgere l’unità di composizione. Colpa, o merito, di una sola mente (Barker) a concepire i testi, anche se preponderante nell’assieme risulta essere il contributo di Liljeström. Ma le parti più belle in questo pezzo sono sicuramente gli inserimenti degli strumenti, ed esattamente al minuto 3’30”, quando tutto sembra destinato a dissolversi, ecco il cambio di ritmo, aumenta la potenza, l’armonia acquisisce una patina solenne, gli effetti del violoncello ci addentrano così, esattamente, in una nuova stanza, più ampia e asciutta della prima. Usciti di nuovo ci rendiamo conto che forse questo era solo un tributo a The End dei Doors.

Sw4 prende le mosse da una voce in sottofondo che probabilmente blatera cose senza senso. Solita introduzione, quasi lo stesso l’approccio al testo. Di nuovo c’è un leggero coro in sottofondo, prima femminile poi maschile, il ritmo è piacevole, batteria essenziale, ormai il prog è completamente archiviato, qui siamo all’alternative.

Siamo alla title track. Attacco sospirato, il testo si apre con un monotòno che poi si amplia in un’aspettata variazione che conferisce un senso altrimenti impercepibile all’orecchio meno “difficile”. Per arrivare a costatare, in fin dei conti, che Gravity rappresenta veramente il più bel brano del disco e meritatamente assegna il nome al titolo del disco. Gli ultimi due minuti sono un protendere verso sonorità ambient, è questo il brano più prog dell’intero lavoro, assieme all’ultima traccia, una reminiscenza difficile da scrollarsi di dosso, con momenti di stasi che, facendo leva anche sul significato del pezzo, ci lanciano in orbita e ci ributtano giù pesanti il doppio.

La canzone che invece più si differenzia dalle altre è The Games we Play, che somiglia molto più a un assaggio di come la band svedese sia stata influenzata (e questo non lo ha detto ancora nessuno che io sappia) dai Pink Floyd. Più precisamente ci vedo molto di More, Meddle o anche qualcosa di Animals. Saranno anche le chitarre acustiche, ma il giro è decisamente gilmouriano, così come la melodia e il cantato.

Dicevamo, come Gravity, anche l’ultimo brano, Seljak, è contraddistinto da un’impronta prog mista a metal melodico. Lo si deduce anche dall’iniziale veloce e sempre più veloce esercizio strumentale, tra batteria e tastiere, dove in questo caso chitarra e basso assumono una presenza di contorno, decisivo per la riuscita finale ma comunque marginale. È l’unico brano in cui risulta assente il testo, piacevole, orecchiabile, ritmico, ma neanche lontanamente geniale.

Inizialmente ero scettico, poi ho apprezzato Gravity dopo averlo messo in macchina e lasciato girare ininterrottamente nel traffico. È lì che ho compreso quanto questo disco non fosse prog ma bensì alternative e post rock (se vogliamo sederci su facili convenzioni che tuttavia aiutano a comprendere di cosa sto parlando). E nel traffico devo ammettere che non suonava per niente male. In cuffia mi aspettavo invece qualcosa in più, e invece, in parte, sono stato tradito. Non credo sia il miglior loro lavoro, ma sicuramente già dimostra il raggiungimento di una certa maturità stilistica e di arrangiamenti. È un assieme coeso e molto coerente. Di originale c’è ben poco ma è l’ennesima testimonianza di quanto la Scandinavia, e la Svezia in particolare, abbia contribuito all’evoluzione del rock e delle sue sfaccettature. Sicuramente da rivedere, ma per ora il mio voto non supera il 6,8.
Track listing:

Monolith – 6:07
Ricochet – 5:44
The War Is Over – 4:42
What Should But Did Not Die – 6:43
SW4 – 6:04
Gravity – 8:19
The Games We Play – 3:24
Seljak – 5:16

Line Up:

Nicklas Barker – Voice, Guitars, Mellotron, Rhodes, Farfisa, Vibraphone
Anna Sofi Dahlberg – Mellotron, Voice, Piano, Farfisa, Organ
Jan Erik Liljeström – Bass, Voice
Peter Nordins – Drums & Cymbals, Vibraphone, Mellotron



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