«Ciao, ciao ciao», «Ciaoooo, ciao!»
Il vecchio oltrepassa il vicolo vicino al bar, alza gli occhi a salutare a due bambini che, dall’alto di un balcone, giocano al gioco del saluto.
«Stai bene? Sì, tu stai bene?»
Risponde alzando la mano – Ehi! – nasconde un sorriso divertito e cammina. Cammina a passo buono, zoppica appena con la sinistra, ogni tanto si ferma a far circolare l’artrosi. Spandere il dolore, domarlo. Con quegli anni addosso non chiede di più. Continua fino a che non lo vede.
“Tornerete a sentire il passo degli anfibi”
Biagio Scoccimarru, classe 26. Lo vide scritto su un muro del suo paesino, sopra Carate Urio.
Era scritto in un nero pesante; sotto, una croce uncinata e una breve, secca parola: “Skinhead”.
Gli tornò tutto al cuore, tutto alla testa. Come un tremendo rigurgito di vita. Quegli ebrei nascosti nella ditta di bambole dei suoi, quella baita di montagna, per i boschi, adibita a rifugio dei partigiani due volte bruciata dai fascisti.
Ma anche lo zio perso in guerra, la borsa nera, l’olio di ricino, le sfilate.
Si ferma, bloccato dai ricordi e dal rancore. Esamina quella scritta come se potesse vederne sensi nascosti, parole invisibili, ulteriori significati. La legge più volte, da una parte e dall’altra. La guarda fino a far sfumare la scritta e renderla del tutto inseparabile dal muro sul quale è scalfita.
Poi torna a casa, a passi pesanti. La schiena ricurva, le spalle scricchiolanti, il collo indolenzito. Ad ogni passo si sentiva più basso e impacciato. Non era più l’età; era il peso di tutti quei ricordi. Un macigno. E la leggerezza con cui quella scritta faceva arrogante mostra di sé su quel muro, era ancora più pesante: insopportabile.
La casa e’ piccola e del colore del legno. Nella saletta, due casse a panca terminano presso un caminetto ospitale. Poco più in là una credenza ospita un piccolo televisore a colori.
Senza un corridoio, la saletta dà direttamente alla piccola e bianca cucina, dalle cui scale si arriva direttamente nel portico. Il piano inferiore è una piccola cantina dove Biagio tiene il vino. Una volta lo faceva lui, ora, lo compra da un amico. Sopra invece c’è la stanza, con un letto matrimoniale. Di Teresa è rimasta solo la foto, sul comodino dalla parte dove dormiva.
Biagio la prende tra le mani, l’accarezza con le dita dure e nodose, dita che hanno anni di lavoro in ogni poro. Riposa la foto, e con fatica torna al piano inferiore. Ravviva il fuoco con il soffietto, e si siede per qualche tempo sulla poltrona. Si scalda, non riposa. Non può. Allunga la mano verso il bicchiere di Valpolicella versato poco prima. Fissa il fuoco, beve.
Raggiunge il telefono, infila l’indice nel foro circolare e compone, lento, sei numeri singoli.
L’oste lo saluta, gli chiede le solite cose. Biagio risponde per le rime, poi glielo chiede «Stasera saranno lì?» «Come sempre». Riattaccò. Finisce il bicchiere, quindi va in bagno. Fa una doccia.
Alla sera mangia con calma. Come sempre solo, il televisore spento: riusciva a sentirsi masticare e rimuginare. Una minestra di verdure con tocchetti di pane, del formaggio svizzero, un piccolo pezzo di salsiccia. Ancora un mezzo bicchiere di vino, rosso.
Si alza, va ancora al telefono. Sei numeri. Aspetta per quattro squilli. Sente la risposta e il rumore dall’altra parte, senza parlare. Riappende.
Si mette un giaccone pesante, verde; allaccia gli scarponi con precisione, e solo dopo va in bagno. Si sciacqua più volte la faccia rugosa e secca con acqua fredda. Si china a bere dell’acqua dal lavandino, la butta fuori.
Uscito dal bagno, apre l’alto armadio presso la porta di ingresso, frugandosi nella tasca. Estrae una vecchia chiave, apre il lucchetto con cui il fucile è assicurato. Si abbassa a prendere una scatola di munizioni. Mette tutto in un gran borsone sul blu, che il figlio usava per andare in palestra.
Spegne il camino con la brocca d’acqua per la cena, guardando il fumo salire, mentre sfrigola la brace. Esce.
Pochi passi, silenziosi e affaticati. Si ferma guardando le nuvole bianche che escono dalle sue labbra. Guarda la piccola madonnina incavata in un buco della roccia, sul vicolo stretto che lo porterà alla piazzetta. Prega.
Cammina fino a raggiungere la locanda dello “Scudo rotondo”, entra. Il posto è quasi pieno. C’è qualche vecchio conoscente, una combriccola che gioca a scopa, un paio di solitari al bancone. E tre ragazzi tra i venti e i trenta. Rasati, anfibi ai piedi e bomber neri sulle spalle. Bevono birra chiara e stanno con due ragazze grassocce.
Biagio li guarda appena, poi raggiunge il bancone, ordina un bicchiere di vino. Vino rosso. Paga in anticipo, è a circa mezzo bicchiere quando Lucio gli chiede «Ehi, Biagio, che ci fai con la borsa della palestra? Una corsetta dopo un bicchiere?». «No». Sorride «Sono i pannoloni».
Lucio si deve quasi tenere la pancia per il ridere, mentre Biagio, dopo un cenno ilare, va in bagno. Si sciacqua velocemente le mani, quindi entra in una cabina. Estrae il fucile dalla borsa, lo monta. Il Sergente gli ricordava di essere sempre uno dei più veloci. Lo carica e lo arma. Toglie la sicura. Si posa qualche secondo la canna sulla fronte, ne sente il freddo metallico.
Esce dalla cabina quando non sente più rumore. Aspetta pochi, lunghissimi secondi. Varca la porta del bagno.
Il primo non fa in tempo a capire. Il boato paralizza la locanda e scaglia a terra un ragazzo, il petto insanguinato. Le ragazze urlano, un altro di loro si alza confuso. Lo sguardo da duro lontano anni luce, rantola qualcosa, poi il proiettile gli apre il cranio rubandogli la vita.
Il terzo scappa dalla porta quasi sfasciandola. Il resto della locanda è troppo sgomento per agire.
Alcuni scappano verso il bagno, altri rimangono impietriti sul posto, altri sotto ai propri tavoli, solo pochi sono abbastanza impavidi da non nascondersi, ma non abbastanza per fermare il vecchio.
Biagio ricarica il fucile nel caos. Raggiunge la finestra, rompe il vetro con la canna. Sente i passi solitari e nervosi correre lungo il viale adiacente. Assottiglia lo sguardo; spara.
Racconto di Mario Frigerio. All rights reserved