Capita molto spesso, nel recensire dischi hardcore, di sconfinare in definizioni insensate o quantomeno improbabili.
Questo avviene per una serie di motivi che forse non è il caso di scomodare per una “semplice” singola recensione, ma che posso riassumere in un paio di punti:
- l’hardcore della cosiddetta “old school”, per intenderci quello “integralista”, tende ad essere percepito per una componente più metal che punk. Questo ovviamente è un po’ anti-storico, ma serve a capire a fondo il genere – visto che il thrash metal nello specifico deriva molte sue caratteristiche dall’HC e NON viceversa.
- i testi di questo genere musicale (HC punk) sono spesso molto meglio concepiti, meno pretenziosi ed intellettualoidi di molti (ahimè) testi metallari.
- la componente musicale non si preoccupa di suonare in sessantaquattresimi o cinque-quarti, ma al tempo stesso – come nella tradizione del rock cosiddetto alternativo – spazia, gira, inventa alla grande, rivolta e fa “quel cazzo che gli pare” (cit. Luttazzi).
Torquemada, dediti a quanto pare ad un crust-core molto interessante, a quanto leggo in giro. Di questi ultimi è presente il brano “Disforia”, che pero’ con il crust ha poco a che fare, trattandosi invece di un hardcore di scuola recente con influenze quasi, direi, psichedeliche. “Giochi fatui” possiede la bellezza immancabile dell’album di esordio: brani duri, durissimi, senza compromessi, e con una poetica di spessore (dolore corazza un millennio è bruciato nel sonno m’ingozzo d’amore sfiggiàto sono le prime parole del disco), visibile in “Vomito Ergo Sum” che vale, come si diceva negli anni 90, da solo il prezzo del CD.“Sorella tristezza” sbraita il proprio dolore senza censura, ed è quello che ti fa accorgere che questa band vale tantissimo: un riff di scuola At the gates accompagna il brano fino alla conclusione improvvisa ed imprevista: una outro elettronica. “Giochi fatui” sa molto di brano che avrebbero potuto suonare i Negazione dei bei tempi, con l’aggiunta di quel tocco di personalità che ti fa dire: “ah: ma questi sono gli Angusta Taurinorum”. “La carne è debole ma io no” ritorna sulle influenze apertamente At the gates, con un tocco di malvagità poetica quel tanto che basta a fare gridare al miracolo. Davvero incredibile questa band, che sto ascoltando per l’ennesima volta tutta d’un fiato (24 minuti di CD complessivi). Come se non bastasse, gli Angusta vanno a scomodare i Queen di “The show must go on”, vivisezionandola in uno screaming che avrebbe fatto rabbrividire (credo) di nuovo lo stesso Freddy Mercury: “but my smile still stands on” assume un rinnovato ed autentico valore di rivincita, cantato così. Questa cover da’ dignità a se stessa e conferisce – se ce ne fosse stato bisogno – dignità al rock della storica band inglese: alla faccia di quell’eventuale “purista” che si possa essere “scandalizzato” per questa supposta “caduta di stile”. Scandalizzarsi per le supposte non è mai un fatto positivo.“Mi dispiace: ma io sò io, e voi non siete un cazzo” di Alberto Sordi apre il successivo brano sulle parole: “anime misere, latita la dignità“. Stiamo parlando della ennesima perla del disco: “Homo merdae“, su cui non voglio dilungarmi a fare ulteriori chiacchiere perchè perderebbe efficacia. Infine devo ricitare necessariamente “Disforia“, introdotta nuovamente da effetti elettronici, e poi soffocante (“senza respiro“), lenta, lacerante, per poi riesplodere. Nel finale del disco dopo “Il cantico delle brutture” conclude meravigliosamente questo capolavoro, anche perchè alla fine compare una ghost-track che satireggia (o motteggia, fate un po’ voi) il genere hip-hop mostrando, dopo tanta doverosa serietà, un’imprevista vena auto-ironica:
“ho già provato la morte / non mi ha fatto niente
ho sentito gli angusta / mi è cresciuto il serpente”
Adesso posso ripeterlo: buy-or-die.