Magazine Cinema
di Francesco Munzi (Italia, 2014)
con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Anna Ferruzzo, Barbora Bobulova
durata: 103 min.
★★★★☆
Non fidatevi di chi liquida Anime Nere come 'L'ennesima storia di mafia' o 'l'equivalente di una puntata di Gomorra...' Vuol dire che non hanno visto il film, o semplicemente non l'hanno capito. Certo, è ovvio, la 'ndrangheta è presente in ogni momento del film, ed è la vera protagonista del racconto: Anime Nere è la storia di tre fratelli calabresi che non riescono a staccarsi da essa, anche andandosene lontano dalla loro terra. Perlappunto. Più che un film di mafia, il film di Munzi è un cupo ritratto di una società degenerata, che ormai nemmeno cerca più di combattere il male perchè il male è parte integrante (e consistente) di essa. I tre fratelli protagonisti vivono come in un agghiacciante reality-show dal quale è impossibile uscire, un mondo inospitale e lugubre che li avvolge e li condiziona in ogni momento della loro vita.
Anime Nere tecnicamente è un noir, e anche dei migliori (ritmo serrato, fotografia livida e accurata, colori freddissimi, dialoghi scarni), ma finisce con l'assomigliare più a una tragedia familiare (anzi, nazionale) piuttosto che a un film d'azione. Diversamente dagli altri film di mafia, il regista non si mette a fare la morale allo spettatore (non ci sono magistrati incorruttibili, poliziotti coraggiosi, preti combattenti, giornalisti idealisti) ma fissa lo sguardo su un pezzo d'Italia nel quale lo Stato è clamorosamente assente, ignobilmente latitante. Non sto parlando di un luogo fisico, ma di una condizione sociale ben precisa: la 'ndrangheta c'è sull'Aspromonte come nei salotti milanesi, nelle strutture futuribili dell' Expo come nei canali di Amsterdam. Anime Nere è una riflessione lucida sul Male e sulla colpevole apatia delle Istituzioni, radiografate da uno sguardo ravvicinato e tenace al quale, purtroppo, siamo sempre meno abituati.
Anime Nere, dal mio personalissimo punto di vista, finisce con l'assomigliare più a un documentario che a una fiction: la potenza evocativa delle immagini consente, a chi vuole e nella misura in cui lo vuole, di tuffarsi nella realtà che racconta, lasciandolo libero di assumere la propria posizione. Munzi infatti non giudica, non pontifica e nemmeno prova a darci una speranza. Paradossalmente sembra assomigliare più a una puntata di True Detective piuttosto che a Gomorra: la visione d'insieme è infatti disincantata e nichilista, senza alcuna concessione al pietismo, senza farci intravedere una minima via d'uscita. Forse è questo l'unico vero punto debole: l'agghiacciante banalità di chi racconta, fotografa e non propone soluzioni possibili. Troppo facile, dirà qualcuno. Ma siamo davvero sicuri che spetti al cinema proporle?
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