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Skepto film fest 2015: Avantgarde and experimental

Creato il 23 aprile 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

In questa edizione  dello Skepto film fest 2015, all’interno della sezione dedicata alla sperimentazione e alla ricerca di nuovi linguaggi , sono tre le opere che giudichiamo interessanti. La prima è quella di Luke Szabados The rubric timestamped, di cui avremo modo di parlare molto presto con un approfondimento-intervista allo stesso autore. Per quanto riguarda le altre due,  si tratta di The Ill Mannered Milkman (2013) del tedesco Willehad Eilers e Instalife di Benjamin Rost e Alex Schuster

Il regista Willehad Eilers, classe 1981, è un artista tutto da scoprire. Inizia la sua carriera come graffitaro nella scena tedesca, e poi si laurea alla Royal Academy of Arts ad Amsterdam. Spesso firma le sue opere anche sotto lo pseudonimo di Wayne Horse. Non è un semplice videomaker, la sua opera infatti comprende disegni, installazioni, apparizioni provocatorie e performance; è attraverso queste diverse forme espressive che intende offrire una mordace e ironica riflessione sulla società.

The Ill Mannered Milkman è infatti un’opera di non-sense destabilizzante, che ha per protagonista Teddy ‘The Milkman’ Milks, un motociclista privo di qualsiasi talento, almeno apparentemente. La sua fama dipende dal fatto che quando suda secerne letteralmente latte; lui fa del suo meglio per ignorare questa sua anomalia, ma essendo inseguito da inquietanti bambini si rifugia nelle dune olandesi con il suo personal trainer.

Eilers ha assorbito tanto la cultura pop  e quella dei b-movies, quanto un certo gusto per il videoclip. Ma in questo lavoro in particolare sembra aver fatto propria la lezione dell’Harmony Korine più crudo, malato, e assolutamente politically incorrect, quello del misconosciuto Trash Humphers (Alcove Entertainment, Warp Films, 2009), le cui affinità con l’opera di Eilers sono evidenti. Quello descritto dal regista tedesco è un mondo allucinato e dai connotati da landa desolata, quasi una trattazione in chiave piuttosto alterata di alcuni temi delicati quali la deformità e le devianze sessuali con un forte gusto provocatorio. Una tematica ricorrente della sua opera è appunto l’interesse per gli aspetti bizzarri e mostruosi ma nello stesso tempo affascinanti, propri dell’umanità. Una visione dell’uomo contemporaneo deforme e in evoluzione, ossessionato dalla sessualità, e a cui conferisce toni caricaturali ed espressionistici, che ne sottolineano  la decomposizione fisica e morale. Alla base della sua pratica vi è infatti una metodologia artistica che richiama il concetto teorico di “surrealismo etnografico” dell’ antropologo statunitense James Clifford: l’artista tedesco affronta quelle particolari situazioni quotidiane che solitamente vengono reputate come familiari, sottoponendole a una forte trasfigurazione, per renderle infine irriconoscibili. Travalicando i confini della nostra immaginazione, intende provocare i suoi spettatori in un’opera, come questa, caratterizzata dal sonoro disturbante e dalla parlata del protagonista biascicata e ubriaca.

Instalife (2014) di Benjamin Rost e Alex Schuster è un documentario sperimentale in cui ci viene proposto per l’intera durata di sei minuti una variegata quantità di foto, rimosse da una non meglio precisata piattaforma di social media, alternate ad altre invece ricostruite con attori in base alle foto originali.

Proponendo le foto in una nuova combinazione le si associa ad una voce fuori campo che si occupa di leggere accuratamente gli  hashtags originali trovati nella medesima piattaforma. La formula risulta davvero vincente.

Siamo nell’era in cui giriamo video, e pubblichiamo foto di cibi, gattini, giovani tumefatti, e persino selfie con l’abito da funerale. Questo  ha come esito un appiattimento disarmante, in cui la morte viene messa sullo stesso piano della pizza del sabato sera. L’uomo che si dà fuoco per raccogliere solo qualche like, e la stima e la fama commisurate alle visualizzazioni. La visione di Instalife è allo stesso tempo divertente e sconcertante, perché mostra la natura sempre più imperante e virale della “self- expression”.

Giacomo Salis


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