Credo che gran parte dei miei problemi stia nell'essere nato in Trentino. Questo particolare locuzione geografica da una parte ti beneficia in molte cose: è una regione autonoma e quindi la crisi è stata leggerissimamente attutita, c'è molta aria pulita, essendo confinanti con la Germania abbiamo il culto della buona birra (peccato che, oltre a non essermi mai fatto una canna in vita mia, sono pure mezzo astemio) e, soprattutto, abbiamo uno dei panorami montuosi più belli del mondo. Ma forse è stato proprio a causa di queste montagne, che ci hanno isolato nel corso dei secoli, che abbiamo ottenuto uno dei caratteri peggiori dello Stivale, tanto che nel resto d'Italia ci dipingono come degli orsi. E proprio a causa di questo carattere vediamo tutti quelli che geograficamente stanno 'in basso' come inferiori, dei «terroni» che pensano solo a non fare nulla ed a suonare il mandolino. Mi duole ammettere, complice anche una cronaca (pilotata, a mio parere, come succede con gli immigrati) che non mette in buona luce i meridionali, di cadere ogni tanto nella trappola dello stereotipo, e per quanto qualunque tipo di discriminazione o razzismo non debba essere giustificata in alcun modo, chiedo venia. Il mio non è razzismo, ma solo influenza culturale alla quale, mio malgrado, non potrò mai scappare del tutto. Ed è anche per una sorta di redenzione personale che ogni tanto mi sforzo di vedere film come questo Anime nere, visto stasera al cineforum della mia città.
Leo, figlio ventenne di un capraro dell'Aspromonte, dopo aver restituito l'offesa a un barista che aveva infangato il nome della sua famiglia, fugge a Milano dagli zii, uno arricchitosi riciclando denaro e l'altro spacciatore internazionale. Il ragazzo vuole entrare nel giro che ha dato ricchezza ai suoi parenti, rifuggendo lo stile di vita del padre, ma tutti loro cadranno nel labirinto delle vendette incrociate...
Che il cinema italiano non faccia altro che parlare di meridionali, spesso usando gli stessi stereotipi per cui sono discriminati e spacciandoli per pregi, è ben risaputo. Questo a mio parere è una trappola subdola, perché col mero scopo di far ridere tutti, alla fine non fa che inasprire, senza volerlo, un'insofferenza che divide ancora oggi un intero paese. È per questo che un film come Anime nere, per certi versi e nonostante nei suoi palesi limiti, è necessario. Perché partendo a parlare della 'Ndrangheta e dei meridionali, immette un discorso che coinvolge tutti. Ma senza risate, senza perbenismi e senza finali consolatori. Tutto è nero. Come il titolo. Parla di meridionali delineando davanti agli occhi dello spettatore una storia noir, forse troppo attutita su quello che può essere un discorso di genere, ma che comunque lascia presumere che nel Bel Paese ci sia ancora qualcuno che riesce a fare un cinema che non ci faccia sfigurare davanti ai prodotti esteri - finalmente. Ripeto, non bisogna pensare a questa pellicola come alla rinascita di qualcosa, qui si prende una storia che è stata raccontata già mille volte e che viene raccontata attraverso degli stilemi vecchi quanto il cinema stesso. Non c'è nessuna innovazione, sia nella tecnica che nella narrativa, la pellicola ha un ritmo molto lento e per quasi tutta la sua durata va vista coi sottotitoli, a patto che non siate delle stesse parti dei suoi protagonisti - un posto dove, come dice il minore dei tre fratelli alla moglie milanese, l'italiano non è ancora arrivato. Cos'è allora che rende questo film meritevole, a differenza di tanti altri prodotti analoghi usciti di recenti dalle nostre fucine di produzione? Che, come ho scritto poco fa, inizia parlando di qualcosa (mafia e dintorni) e finisce per abbracciare un discorso incredibilmente più lungo, complesso e articolato. Senza spingersi troppo in là e senza dare soluzioni, cosa che non spetta al cinema né ad ogni altra forma artistica. Quello che il regista Francesco Munzi sembra voler dire, con questa famiglia dislocata ai due angoli opposti d'Italia, l'arretrato Aspromonte e la civilissima Milano, è che il male sta in ogni dove. Ci si può illudere di nasconderlo dietro un vestito elegante o in un elegante palazzo borghese, ma anche se l'allunghi con l'acqua la minestra rimane minestra. Forse un po' insapore, ma sempre di minestra si parla. «Dobbiamo rimetterti a nuovo, perché sei vestito da capraro» dice uno degli zii al nipote non appena giunge a Milano, ma in qualunque modo il ragazzo si vestirà, il suo destino è già segnato. Non è tanto il meridione a essere malato, tutta l'Italia sembra versare in questo stato. Che ci si concentri in maniera specifica su una zona, per pure esigenze narrative, è solo un dettaglio. Vari elementi esterni verranno, tutti a sporcarsi e a indignarsi nel vedere vecchie che fanno nenie interminabili, capre che vengono sgozzate a mano per essere macellate per la festa e pomeriggi casinari tipici di quei posti. Ma sono solo due modi opposti di indicare la stessa cosa. A Milano tutto succedeva dietro le quinte, lontano da occhi indiscreti e in posti strategici che fanno sembrare il tutto appartenente a una sorta di dimensione alternativa. Cosa da film, perché alla fine sembrano proprio quelle, faccende che siamo abituati a vedere in televisione nei prodotti di fiction e che quindi ci sembrano distanti anni luce dalla nostra quotidiana realtà. In meridione però tutto accade alla luce del sole o della luna, quindi è un male che accompagna tutti i suoi abitanti in ogni fase della loro vita. Un qualcosa a cui, a loro modo, sono abituati e col quale convivono, questo però senza perdere mai la coscienza di ciò con cui hanno a che fare, fissandolo sempre dritto negli occhi, pur sottostandovi. Ma come diceva Nietzsche: se guardi nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te. E lo stare spesso a contatto coi mostri, può renderci dei mostri a nostra volta.
Un film ingiustamente bocciato da molte parti per quelli che sono i suoi effettivi demeriti, ma che tiene la propria vera arma vincente nascosta nei dettagli.Voto: ★★★