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"Anime nere" di Gioacchino Criaco

Creato il 06 ottobre 2011 da Sulromanzo

Anime nereNon è affatto semplice fare lo scrittore.

Soprattutto se sei bravo.

Se poi sei anche calabrese, originario di Africo e scrivi storie di ‘ndrangheta che suscitano grandissimo clamore, la faccenda diventa ancora più complicata.

Criaco lo sa.

A seguito della pubblicazione dei suoi romanzi è stato attaccato da alcune frange della società calabrese. La colpa? In sostanza di non aver preso a sufficienza le distanze da quel mondo, di risultare troppo dentro le storie descritte e di aver dato troppa importanza al punto di vista dei delinquenti.

Criaco risponde: “Il mio lavoro è fare lo scrittore. Non il mafioso, se è questo che intendete!”

Scrittore di una trilogia scomoda. Forse, per qualcuno, irritante più del peperoncino negli occhi.

Anime Nere è il primo libro, una narrazione che lascia in bocca il sapore aspro e pungente della provocazione etica e ideologica, che palesa realtà imbarazzanti, contesti al limite, personaggi oscuri, perché vivere in quel modo, in una certa Calabria, più in particolare nella Locride, nello specifico in Aspromonte, sembra un presupposto esistenziale inevitabile, una fatalità, una maledizione, una punizione. Quasi una questione di iattura. O di genetica.

Eppure Criaco non cade nell’insidia delle interpretazioni, non si lascia abbagliare da “impellenze” esegetiche e sociologiche.

No, lui si attiene ai fatti, soltanto ai fatti, atroci, degli ultimi trent’anni di storia italiana vista dentro le interiora nauseabonde della ‘ndrangheta, dalla pratica radicata, ancestrale, dei sequestri di persona degli anni Settanta e Ottanta, passando per le rapine alle banche e agli uffici postali, fino al traffico di droga, dal Sud America alla Milano delle modelle e degli yuppies, con la complicità di parte della politica e la correità di alcune mele marce delle forze dell’ordine.

Per farlo utilizza un “io narrante” singolare: il protagonista è un giovane ragazzo che in prima persona riporta la storia sua e di due coetanei, tutti figli di pastori dell’Aspromonte; in apparenza, quelli che si dicono «dei bravi ragazzi».

In un primo momento li incontriamo a Locri, al liceo, mentre cercano di istruirsi, di affrancarsi da quel mondo; poi, però, cominciano ad assentarsi dai banchi di scuola, è un processo graduale ma inesorabile, si nascondono nelle alture dell’Aspromonte a preparare i pasti per sequestrati e sequestratori, si danno alle rapine, aiutano i loro padri. Iniziano così. Incapaci a fare altro. L’hanno assimilato proprio da loro, dai padri, così come da loro hanno assorbito l’arte di fare il formaggio, la capacità di difendersi dalle bestie selvagge o accompagnare il gregge al pascolo. Vogliono continuare a studiare, è vero, magari pure laurearsi ma quel che è certo non vogliono farlo da miserabili. E quando i soldi ottenuti, imbrattati di morte, iniziano a circolare nelle loro case, nessun fiato viene sprecato. Dopotutto ci si può comprare “la doccia a telefono” che tanto piace o regalare l’arredo per la casa delle sorelle o la biancheria per il matrimonio.

Com’è prevedibile il denaro non tarda ad arrivare a fiumi, e di più ancora, sempre di più.

Interrompere il processo è fuori questione, perché il crimine diventa inevitabile, “chi là nasceva là moriva. E soprattutto due erano le cause di morte, la fatica e il piombo, a esse era difficile sfuggire”.

Le pagine del romanzo riversano sangue a fiotti.

Mano a mano che si procede nella lettura non si riesce a star dietro al numero dei delitti commessi; perché i crimini, le vendette, i regolamenti di conti sembrano non arrivare mai a una fine, come se non ci fosse altra strada da percorrere se non quella, come se dopo aver ottenuto tutto l’oro del mondo l’obiettivo primario non fossero più i soldi ma l’annichilimento totale delle loro esistenze.

Criaco fa dire a uno dei suoi personaggi: “Noi eravamo persone normali solo sui nostri monti, fuori da lì diventavamo belve in cattività, un animale selvatico impazzito, cosa si aspettavano di addomesticarlo?”

Un crescendo di colpi di scena senza lieto fine. Non ci sono vie di mezzo, non ci sono sfumature ma solo il nero dell’anima dei personaggi e una morale che non ci appartiene ma che ci sfiora la pelle da vicino. Dopo molti viaggi che gli hanno fatto conoscere uomini, posti e fatti, Criaco è rientrato nel suo mondo, l’Aspromonte, per raccontarlo. Lo fa con maestria.

Cos’è che dà l’indice di bravura di uno scrittore?

Probabilmente nel caso di Criaco la risposta è insita nel dubbio che molte critiche gli ha causato: “Perdoni l’impertinenza ma a leggere le sue storie, sì insomma, il sospetto viene…”

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